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Elezioni Usa, Montanari: il trumpismo non è finito

Sulla scia del Covid era stato dato per morto o quasi ma il trumpismo, contrariamente ad ogni previsione, negli Stati Uniti, “resiste eccome”. A dirlo Lorenzo Montanari, analista e vicepresidente Affari Internazionali dell’influente think tank conservatore americano ‘Americans for Tax Reform’ (Atr). Stiamo parlando di uno dei più grandi gruppi di pressione d’area repubblicana: al suo attivo innumerevoli battaglie combattute dagli anni ’80 a oggi in nome di un fisco più semplice e leggero, e un’articolata dottrina pro “supply-side economics” che nel 2017 ha ispirato la riforma fiscale licenziata dall’Amministrazione Trump. Mentre Oltreoceano continua la conta all’ultimo voto negli Stati tuttora senza “vincitori dichiarati”, chiediamo a Montanari – reggiano doc ma da oltre 12 anni residente a Washington D.C. – di aiutarci a decifrare un’elezione presidenziale destinata a passare alla storia come una delle più combattute tra Democratici e Repubblicani. Le urne delle Elezioni Usa stanno infatti consegnando al mondo uno scenario a sua detta “ancora più spaccato e incerto di quello che si delineò nel 2000”, quando George W. Bush conquistò la Casa Bianca con soli 537 voti in più dello sfidante democratico Al Gore, dopo che la Corte Suprema confermò l’esito del riconteggio delle schede in Florida.

 

“Questa volta, spiega Montanari, abbiamo Stati chiave come la Georgia, dove lo scarto tra i due candidati è appena dello 0,5%, e l’Arizona dove i due si distaccano per meno di 100mila. E poi c’è il grande punto interrogativo del voto espresso per corrispondenza (n.d.r. che di solito ‘premia’ i democratici) che in Pennsylvania, un altro stato-chiave, potrebbe spostare qualche centinaia di migliaia di voti su Biden, tuttora indietro rispetto Trump”. La corsa alla Casa Bianca rischia in definitiva di terminare al fotofinish, in un quadro di tensioni crescenti tra i due schieramenti e dopo una pronuncia della Corte Suprema Usa. Ciò che molti, Montanari incluso, indicano come il ‘worst case scenario’.

 

Prevedere un vincitore a 24 ore dalle Elezioni Usa resta un esercizio rischioso anche per chi, come lui, da anni frequenta gli ambienti “republicans” nella Capitale e in quell’America rurale profonda ma vastissima, che è ben poco raccontata (e ancor meno conosciuta) nel nostro Paese. “Comunque andranno le cose, il voto ha fatto emergere con certezza che il trumpismo non è finito e questa è già una vittoria per Trump. Anche se dovesse vincere Biden – aggiunge – Trump avrebbe titolo per potersi ricandidare tra quattro anni”.

 

Chi sarà quindi il prossimo Presidente degli Stati Uniti? La domanda è ancora senza risposta, “ma senz’altro – taglia corto Montanari – da oggi il futuro di Donald Trump è molto meno indecifrabile di quanto si potesse credere prima del voto”. Basandosi sui sondaggi, “che per la seconda volta hanno clamorosamente fallito le loro previsioni – chiarisce – il consenso di Trump sarebbe dovuto scendere drasticamente”, addirittura al di sotto di quello che registrarono George H. W. Bush e Jimmy Carter quando non furono riconfermati al secondo mandato.

 

Invece, insiste Montanari, “le analisi pubblicate anche in Usa hanno per lo più dimostrato di non corrispondere a realtà”. Uno studio Gallup di fine ottobre sull’evoluzione del consenso elettorale pro Trump nel 2020 aveva, per esempio, registrato una sostanziale soddisfazione degli americani per la gestione economica di Trump. Anche questi dati, passati per lo più in sordina, indicavano chiaramente che “a dispetto della pandemia e dei conflitti razziali, l’elettorato americano avrebbe votato secondo temi legati all’economia, al lavoro e alle tasse, temi che restano dirimenti nella competizione elettorale americana”. “E difatti – rammenta ancora Montanari – alla classica domanda se gli americani stiano meglio oggi di quattro anni fa, la maggioranza del campione quest’anno ha risposto “sì”, dimostrando di distinguere bene tra gestione economica (giudicata buona) e gestione della comunicazione dell’amministrazione Trump, bollata come “pessima” da un’ampia maggioranza dello stesso campione”.

 

Secondo Montanari, anche la riapertura dell’economia e del business, dopo il parziale lockdown e nonostante la progressione dei contagi da Covid-19, è stata una scelta politicamente ed economicamente “premiante” come confermano i dati sul Pil americano del terzo trimestre dell’anno, in crescita su base annua del 33,1%, dopo la contrazione del 31,4% nel trimestre precedente.

 

Possibile allora che negli Usa la cura vincente sia tagliare drasticamente le tasse? A quanto pare è proprio così: “la teoria della supply-side economics di Trump, conclude Montanari, per buona parte degli americani (n.d.r. ma ancora non sappiamo per quanta parte esattamente) ha dimostrato la sua validità nello stimolare la crescita. E con quella sono arrivati i voti”.

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