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Trump dimostra il rischio dei ‘pieni poteri’

I fatti di Washington tornano a mettere in primo piano il rischio dei pieni poteri. La deriva voluta da Donald Trump, ancora Presidente degli Stati Uniti, e la reazione faticosa e tardiva di una democrazia ritenuta solida come quella americana rivalutano l’equilibrio tra i poteri di una Costituzione come la nostra.

 

È un tema che divide, quando dovrebbe trovare allineato l’intero arco costituzionale. La suggestione dell’uomo forte ricorre e viene ciclicamente alimentata da leader di estrazione diversa. Basti pensare, in ordine cronologico e con differenze anche sostanziali, a Silvio Berlusconi, a Matteo Renzi, a Matteo Salvini. L’uomo solo al comando, a maggior ragione se sostenuto da largo consenso, non può disporre a suo piacimento della macchina democratica. Per nessuna ragione. E la legittima richiesta di governabilità, così come la ricerca di efficienza nei processi decisionali, non possono prescindere da un controllo costante, e con poteri adeguati, delle Istituzioni.

 

Come stanno dimostrando queste ore, il Venticinquesimo emendamento o l’impeachment previsti dalla Costituzione americana sono rimedi estremi, inevitabilmente lenti perché straordinari. E l’enorme potere di cui dispone il Presidente, incluso quello di mettere o meno la Guardia Nazionale a difesa del Campidoglio, assume una discrezionalità ‘personale’ che nel caso di Donald Trump si è rivelata non solo mal riposta ma pericolosissima.

 

C’è da riflettere anche sul legame che c’è tra le parole che si usano e la reazione delle masse che sostengono i leader. Una responsabilità diretta e rivendicata nel caso di Trump, salvo la posticcia marcia indietro di oggi.

 

L’accostamento tra Donald Trump e Matteo Salvini, ingeneroso per il leader della Lega ma più volte sostenuto e alimentato da lui stesso, riporta alla memoria un passaggio significativo della storia recente.

 

“Non sono nato per scaldare le poltrone. Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri per fare fino in fondo quello che abbiamo promesso di fare, senza rallentamenti e senza palle al piede”. Queste parole di Matteo Salvini sono del 9 agosto 2019, in piena estate del Papeete. Sono le parole che hanno impresso un’accelerazione decisiva alla fine del primo governo Conte, quello a guida giallo-verde in cui il leader della Lega era vicepremier.

 

Salvini, in quella occasione, non chiedeva di fare il dittatore. Ma cercava di forzare la mano per arrivare a Palazzo Chigi sulla spinta dell’enorme consenso che aveva raccolto nelle piazze e in spiaggia a Milano Marittima.

 

Ma il solo evocare i pieni poteri è bastato per innescare una reazione che, coagulando altri interessi di parte, ha prodotto una soluzione, per quanto discutibile da chi sostiene Salvini, passata per un corretto percorso istituzionale. Con una logica essenziale: i pieni poteri non devono trovare spazio in una democrazia matura.

 

 

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