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Calcio, la marcia indietro cinese. Effetto Suning sull’Inter

La bolla è esplosa e il Covid-19 non è la causa principale, ma il detonatore della marcia indietro. Il calcio cinese segue la rotta del disimpegno, almeno in Europa, con i grandi gruppi finanziari che, su indicazione del governo cinese, ora preferiscono altri settori, magari con rendimenti più sicuri, rispetto al pallone. Il piano di investimenti da 800 miliardi di dollari del 2014, con scadenza 2025, e l’obiettivo di rendere la Chinese Super League una potenza mondiale appartengono al passato.

 

La passione è finita, forse ha inciso il mancato boom del campionato locale invaso da stranieri interessati più allo stipendio, oppure la nazionale che non cresce mai o il calo di interesse dell’opinione pubblica. La decisione è presa e in questa ottica c’è Suning che venderà una percentuale della sua proprietà dell’Inter al fondo di private equity BC Partners, che ha avviato la due diligence, espressione che i tifosi hanno imparato a conoscere e temere negli anni, sui conti della società milanese. Un qualcosa che bolliva in pentola da qualche mese – ha ammesso di esserne a conoscenza anche il tecnico dell’Inter, Antonio Conte – ovvero da quando il governo di Xi Jinping, che dieci anni fa avviava l’età dell’oro, tra arrivo di stranieri iperpagati e tecnici di base portati in Cina a peso d’oro, elaborò il piano di vincere una Coppa del Mondo entro il 2050. Quindi, ingaggi faraonici per stelle o presunte tali, allenatori e l’approdo nelle proprietà del calcio europeo.

 

Ora, con l’indicazione da Pechino, c’è la traccia chiara del ridimensionamento del calcio cinese, tra costi più bassi, anzi salary cap (tre milioni di euro lordi per ingaggio) e un tetto agli stranieri. E niente più assegni a svariati zeri investiti in Europa, almeno per il calcio. E quindi Suning, che ha sempre considerato l’Inter come una specie di ottovolante per l’Europa, si adegua, si ritira, almeno in parte. Ma il processo di distanziamento degli yuan dalle casse dei club europei, non solo nel calcio, è concreto anche negli altri Paesi, in Europa e nel resto del mondo.

 

Nel mappamondo dei gruppi finanziari o fondi di investimento dello sport mondiale, che assieme valgono qualcosa come 100 miliardi di euro, c’è poca traccia di Cina. Al primo posto si piazza infatti la statunitense Liberty Media, che vale 13 miliardi di dollari ed è l’ex proprietaria del mondiale di F.1. Poi, ancora gli americani di Kroenke Sports (8,7 mld di euro), con quote dei Denver Nuggets (Nba) e dell’Arsenal, mentre nella top 20 ci sono anche il Fenway Sports Group (Liverpool, Boston Red Sox) e il City Football Group che ha costruito il puzzle del pallone, con quote di maggioranza di dieci club in altrettanti paesi mondiali. La Cina non è presente. L’Eldorado del pallone, che aveva portato colossi cinesi a investire anche nell’Atletico Madrid, nel Lione e in altri club europei (nessun top club, a parte l’Inter di Suning), pare ai titoli di coda. E nei piani di Pechino non è prevista, al momento, la revisione del copione.

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