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Nel discorso pronunciato al Senato per illustrare il programma del suo governo, il nuovo Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha riportato in uso parole a lungo dimenticate. Parole semplici come consultori e centri di igiene mentale, finite nel dimenticatoio, che mi hanno toccato come donna e cittadina, davvero ce n’è un gran bisogno.

E parole più simboliche, diventate negli ultimi anni e ancor più negli ultimi mesi, desuete, come concorrenza. Dopo aver indicato la certezza delle norme e dei piani d’investimento pubblico come fattori che limitano gli investimenti, sia italiani che esteri, il premier ha proseguito con un “Inoltre la concorrenza: chiederò all’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato di produrre in tempi brevi, come previsto dalla Legge Annuale sulla Concorrenza (legge 23 luglio 2009, n.99) le sue proposte in questo campo”.

Ho immaginato la sorpresa, mista a incredulità che deve aver colto il Presidente, Roberto Rustichelli, i componenti del collegio, il segretario generale e, giù per li rami fino all’ultimo funzionario, e il sorriso involontario che deve esserne seguito all’udire il tanto bistrattato vocabolo in un programma di governo, sulla bocca del premier. Tanto per chiarire quanto in disuso fossero andati il vocabolo stesso, concorrenza, e la relativa legge annuale, basta ricordare che quest’ultima fu presentata una sola volta, a ben otto anni dalla sua introduzione, nell’agosto del 2017 dopo addirittura 700 giorni di incubazione. Legge biennale a quel punto, non più annuale.

Il Presidente Rustichelli ha immediatamente risposto che produrrà a breve le proposte per il disegno di legge annuale: “Siamo pronti a fare la nostra parte nel pieno rispetto delle prerogative e dei ruoli e assicuriamo la nostra piena disponibilità al Presidente Draghi, al Governo e al Parlamento per arrivare rapidamente ad una legge che aiuti il Paese ad uscire dalla crisi economica causata dalla pandemia e riprendere il sentiero della crescita”. Un’occasione importante per l’Antitrust che probabilmente concentrerà i suoi sforzi su poche, decisive misure.

Non è un mistero che, complice la “scusa” della pandemia – a volte giustificata, molte altre no – e la recessione che ne è seguita, i vincoli della concorrenza siano stati allentati e sia tornata ad aleggiare, in un Paese dove questa spinta non è mai venuta meno, la tentazione del “tutto pubblico”, dello Stato salvatore e ultimo “problem solver” delle imprese in crisi. Vedi Alitalia, Ilva, Autostrade per l’Italia e prima Mps, grandi gruppi, mica Pmi. Con il mercato vissuto come nemico e non come regolatore e selezionatore dei migliori, dei più innovatori, e a tutela dei consumatori.

Le classifiche internazionali sono impietose: secondo “Doing Business” l’Italia è al 26esimo posto su 28 Paesi EU e su 58 nel mondo mentre l’Index of Economic Freedom dell’Heritage Foundation la colloca al 26esimo posto su 28 e 18esima nella Business Freedom, sempre su 28. Da troppi anni il Paese non cresce, l’ascensore sociale è fermo e le disparità aumentano, anche per la mancanza di competizione: per le barriere all’ingresso che incontrano i nuovi soggetti imprenditoriali che tentano di entrare in tanti settori manifatturieri e del terziario e per la mancata uscita dal mercato di imprese ormai decotte, che restano in vita solo in quanto protette. Invece, con la dovuta gradualità, mano a mano che il Paese uscirà dall’impasse pandemico, la concorrenza sarà una grossa occasione per rimettere in moto il sistema economico.

Draghi ha precisato che il suo Governo “dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare. Anche radicalmente. E la scelta di quali proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito della politica economica nei prossimi anni. (…). Centrali sono le politiche attive del lavoro, … è necessario migliorare gli strumenti esistenti, rafforzando le politiche di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati”.

Una sana e vitale politica industriale e un altrettanto sana e vitale concorrenza non sono in antitesi tra loro, anzi l’una può giovarsi dell’altra per creare le condizioni in cui la competizione tra le imprese si sviluppi diventando virtuosa. Promuovere e supportare la ricerca, l’istruzione e la formazione – anche per riqualificare coloro che perderanno il lavoro nelle imprese fuori mercato o fuori dalla storia -, l’innovazione e la digitalizzazione, la transizione ecologica, le infrastrutture fisiche e della comunicazione sono tutti elementi di una sana e vitale politica industriale che non confligge con la concorrenza. Insieme, come ha sottolineato il presidente del Consiglio, alle politiche attive del lavoro, alla riforma degli ammortizzatori sociali e al sostegno al reddito delle famiglie.

La ripresa post-Covid dipenderà anche da quanto una politica industriale così concepita sarà capace di spingere il Paese fuori dalle secche in cui stagna da troppo tempo. Coniugata a un rilancio delle regole della concorrenza che aiutino a ristrutturare i settori a produttività troppo bassa e a far crescere più velocemente quelli già capaci di competere in ambito nazionale e internazionale. Regole che, di per sè, non impediscono interventi dello Stato laddove si rivelino irrinunciabili per garantire diritti e tutela dei cittadini, come salute, istruzione, sostenibilità ambientale e riduzione delle diseguaglianze.

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