Cerca
Close this search box.

All star game, perché l’NBA non ha voluto rinunciare

nba black lives matter

Ecco la partita delle stelle, che le stelle non volevano giocare. E che la Nba ha invece imposto, anche in tempo di pandemia, di contagi, di palazzetti quasi del tutto vuoti. Perché i dollari restano i dollari, specie se tanti e se le perdite sono state sostanziose. Nel weekend le star della Lega si ritroveranno per l’All Star Game ad Atlanta, evento clou della stagione, il prodotto, assieme alle finali per il titolo, che più rappresenta lo show-business della Nba.

Un prodotto da esportazione in ogni angolo del globo: schiacciate, assist da cinema, assenza assoluta di difesa e, con il punteggio in bilico, una decina di minuti del miglior basket al mondo. I migliori tutti assieme, Lebron James in squadra assieme a Steph Curry con Giannis Antetokounmpo. E dall’altro lato Kyrie Irving, James Harden, Kawhi Leonard. Insomma, qualcosa per cui valga la pena pagare. Nello specifico, 60 milioni di dollari solo dalla tv via cavo (TNT, che a sua volta incassa 30 milioni solo dagli spot pubblicitari) che trasmetterà l’evento, cifra da innalzare fino a quasi 100 milioni di dollari, secondo quanto scrive il New York Times, contando anche i ricavi da sponsor, merchandising.

Un pacchetto di dollari che la Nba non poteva respingere, anche se alcune delle star, partendo da Lebron James, si erano dette estremamente contrarie alla partita, al weekend di canestri e show, perché giocano da oltre un anno in fila, una volta ogni due sere, spesso ogni sera. Con i fisici logorati da infortuni, stress, le conseguenze per alcuni atleti del Covid-19. Niente da fare, è stato il sindacato dei cestisti a imporre la presenza all’All Star Game, il bilancio della Nba viene prima. La stessa motivazione che aveva spinto la Nba a partire prima con la stagione, entro Natale, mentre quella precedente si era chiusa a ottobre inoltrato, per non disperdere circa 150 milioni di dollari. Un peso economico che si sarebbe sommato alle perdite da oltre un miliardo di dollari per la passata stagione senza incassi al botteghino (e non solo) e ai 500 milioni di dollari svaniti per l’incidente diplomatico con la Cina (un dirigente degli Houston Rockets twittato a sostegno dell’indipendenza di Hong Kong). Solo da pochi giorni Pechino ha acconsentito alla messa in onda delle partite della Nba sul canale nazionale. E vanno messe in conto anche le perdite ulteriori che la Nba sta maturando, con una regular season con dieci partite in meno (72), con gli spalti quasi totalmente vuoti.

Insomma, le star, in testa Lebron James, sono potenti, mediatici, una calamita di interessi per l’opinione pubblica, con la forza di spostare nell’opinione pubblica. Ma la Nba, con i suoi conti, i suoi programmi, viene ancora prima. Forse anche prima della pandemia, perché un focolaio ad Atlanta con il potenziale coinvolgimento degli atleti potrebbe produrre focolai nelle rispettive squadre, una volta concluso lo show con il ritorno, pochi giorni dopo, alla stagione regolare. Un rischio altissimo, calcolato. E una traccia, un avvertimento anche per il calcio europeo, che vorrebbe adottare il sistema Nba, anche sul fronte del salary cap.

ABBIAMO UN'OFFERTA PER TE

€2 per 1 mese di Fortune

Oltre 100 articoli in anteprima di business ed economia ogni mese

Approfittane ora per ottenere in esclusiva:

Fortune è un marchio Fortune Media IP Limited usato sotto licenza.