‘Di padre in figlio’ era un bel titolo. È stato in pagina per qualche ora, per sintetizzare l’approfondimento sul capitalismo familiare al centro del prossimo numero di Fortune Italia. Poi, come succede in ogni redazione, abbiamo iniziato a farci delle domande. E ‘Di padre in figlia?’ E ‘Di madre in figlio?’ E tutte le possibili combinazioni tra padre, madre, figlio e figlia? E la parità di genere?
Poi ci siamo anche chiesti se stessimo esagerando, se fossimo stati tutti presi da un eccesso di politicamente corretto che stava ostacolando il nostro lavoro. Alla fine, sommando le risposte, quel titolo è cambiato e in edicola ne troverete un altro.
Abbiamo fatto questa scelta, insieme donne e uomini della redazione, perché crediamo che la parità di genere sia anche una questione di parole. Non sarebbe cambiata la sostanza del lavoro che abbiamo fatto ma quel titolo avrebbe assecondato un riflesso incondizionato, che viene da una cultura in cui non esisteva la parità di genere. Perchè il padre che trasmette a un figlio, un sapere o un patrimonio o qualunque altra cosa, è una rappresentazione parziale della realtà.
Ci sono aziende che passano di padre in figlio ma ci sono e ci saranno sempre più aziende guidate da donne, che hanno ereditato la guida di un’azienda o che, a loro volta, la trasmetteranno a un figlio o a una figlia.
Così come è doveroso fare attenzione ai titoli e alle parole quando si fa cronaca, e si racconta un femminicidio o un caso di violenza di genere, pure il lessico economico deve fare la sua parte. Anche quando comporta scelte apparentemente meno efficaci e immediate. Non è solo un accorgimento che evita critiche e che mette al riparo dalle contestazioni, è un contributo a un percorso ancora lungo. Certo, la ministra e la segretaria al posto di ministro e segretario restano un problema linguistico irrisolto e una soluzione difficile da digerire.
