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Ever Given, non sarà l’ultima crisi di Suez

Non è la prima e certo non sarà l’ultima ‘crisi di Suez’, come l’hanno definita i giornali e le televisioni di tutto il mondo. Iniziata il 23 marzo quando si è incagliata la Ever Given e durata una settimana – se davvero come si spera il canale tornerà rapidamente navigabile e aperto al traffico, smaltendo le navi in coda – ha bloccato la via d’acqua strategica che collega l’Asia al Mediterraneo e all’Europa, trasformandola in una barriera capace di interrompere il commercio internazionale e mandare in tilt le supply chain mondiali per mancanza di componenti e semilavorati. Ora il rischio è che la “crisi” dal mare si trasferisca alla terra, nei porti di attracco e destinazione.

Stavolta non è stata la guerra, come nel 1967, a bloccare Suez. Stavolta, più semplicemente, più banalmente verrebbe da scrivere, è stato un errore umano di manovra – la causa più probabile secondo Luca Vitiello, presidente di Assorimorchiatori – oppure una tempesta di sabbia e vento, come si è affrettato a spiegare l’armatore giapponese, a gettare fuori rotta la portacontainer Ever Given, mandando la prua a insabbiarsi a lato dal canale. Sigillandolo come una gigantesca e altissima chiusa. Toccherà all’inchiesta che si aprirà stabilire le responsabilità, gran lavoro per le assicurazioni coinvolte che rischiano di dover sborsare cifre esorbitanti a copertura delle perdite che il naufragio ha causato alle parti coinvolte, considerando che da quel collegamento transita il 12% del commercio mondiale.

Per accendere l’immaginazione dei propri lettori meglio di quanto possano fare i meri numeri – 400 metri di lunghezza, quasi 60 di larghezza, stazza di 224mila tonnellate per complessivi 20mila containers – e dare il senso delle dimensioni della Ever Given tra le più grandi navi al mondo, il Guardian ha scritto che è quasi 100 metri più lunga di quanto sia alto lo Shard, con i suoi 310 metri il più alto grattacielo di Londra, mentre il Wall Street Journal l’ha paragonata all’Empire State Building. Quanto al valore, altro metro di misura, le merci che trasporta valgono circa un miliardo di dollari.

Sono quasi 400 le navi che si sono messe in fila all’ingresso Nord e Sud in attesa che la navigabilità della via d’acqua sia ripristinata, pochissime quelle che hanno scelto di circumnavigare l’Africa e passare il Capo di Buona Speranza: sono tra i 7 e i 10 giorni di navigazione in più (11.700 miglia marittime contro 8.300), con i ritardi e i costi aggiuntivi di carburante, per non parlare dei pirati che infestano le acque al largo del Golfo di Guinea. A bordo hanno caricato di tutto di più: dal petrolio ai combustibili fossili raffinati (circa 100 navi), dalle granaglie al legno, dal bestiame al tè mentre nei container sono chiusi dai mobili Ikea alla birra Heineken, dalle moto Ducati alla componentistica auto. Tutto quel che viaggia da Oriente, dalla Cina, verso Occidente, l’Europa.

Per fortuna, secondo la ricognizione fatta, a parte una portacontainer del gruppo Messina, bloccate in attesa non ci sono imbarcazioni battenti bandiera italiana. Mentre è italiano uno dei 14 rimorchiatori che hanno contribuito tra domenica e lunedì a smuovere la balena multicolore spiaggiata nel deserto: si tratta del Carlo Magno, super-rimorchiatore d’altura, 55 metri di lunghezza, di proprietà della Augustea, società della storica famiglia campana Cafiero. Significativo per l’Italia essere presente tra le nazioni che si sono spese e hanno contribuito con mezzi e capacità nautiche a risolvere la crisi.

L’attesa agli imbocchi di Suez, purtroppo, non è finita: la capacità ‘normale’ del canale è 50 navi al giorno ma le autorità egiziane hanno promesso che raddoppieranno le ore di lavoro. In ogni caso serviranno almeno sei-otto giorni per smaltire le imbarcazioni che si sono via via accumulate dal giorno dell’incidente. Il che significa arrivare con giorni di ritardo nei porti – secondo il Lloyd’s List fino al 90% delle merci caricate non è assicurato per questa fattispecie – e perdere così gli slot di attracco prenotati. Ecco perché l’ingorgo prodotto dalla crisi potrebbe trasferirsi dal mare alla terra, ai porti italiani ed europei. Genova e Trieste in primis.

Sui traffici del porto ligure il canale di Suez incide tantissimo: da lì passa il 22% dei volumi complessivi di merce dello scalo e poco meno del 50% dei container. Il presidente dell’Autorità Portuale, Emilio Signorini, si prepara a quello che definisce ‘il contraccolpo’. “Da Suez a Genova ci sono tre giorni di navigazione – ha dichiarato a La Repubblica – Avremo un afflusso maggiore rispetto all’attività normale e dovremo gestirlo non solo in mare ma anche a terra, dove sappiamo di avere criticità infrastrutturali per un inoltro veloce”. Il porto si sta attrezzando: da sabato è in stato di pre-allerta, come indicato dalla Capitaneria che ha aperto un tavolo permanente con i servizi tecnico-nautici, piloti, rimorchiatori e ormeggiatori.

Minore l’impatto prevedibile a Trieste. “Qui spostiamo il 56% del traffico del terminal container via treno – ricorda il presidente dell’Autorità Portuale, Zeno D’Agostino -, la vocazione intermodale del nostro porto assorbe meglio eventuali picchi di imbarcazioni in arrivo. Da una settimana non attraccano navi, siamo pronti per quando torneranno: avremo treni da riempire e la capacità e il know how per farlo senza intoppi”.

La crisi di Suez ha riaperto il dibattito sul gigantismo navale e sulla ridefinizione delle rotte marittime mondiali. “L’Italia deve tifare per il canale di Suez, perché venga raddoppiato interamente, così da evitare blocchi come quello attuale – Mario Mattioli, presidente di Confitarma, l’associazione degli armatori aderente a Confindustria ne è convinto – Per noi è cruciale visto che il nostro ‘sistema Paese’ è già poco competitivo in termini logistici”.

Dopo la disruption, la crisi del commercio internazionale e delle supply chain globali prodotta dalla pandemia ancora in corso, la crisi di Suez è un nuovo avvertimento, un nuovo allerta sulla fragilità del sistema logistico e manifatturiero scaturito dalla globalizzazione. Basta una manovra sbagliata a mandarlo in standby.

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