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Cuba, l’economia non vive di ideologia

Difficile scrivere di Cuba senza rimanere, in qualche modo, incastrati nelle suggestioni. Prima ancora di quelle legate alle ideologie, ormai sbiadite e consumate dal tempo, sono suggestioni culturali, storiche, e anche personali. Cuba è stata un’esperienza rivoluzionaria. È stata un laboratorio di idee e di speranze, quasi tutte tradite dalla deriva dittatoriale e dalla compressione dei diritti fondamentali. Oggi, e ormai da anni, Cuba è soprattutto un gigantesco equivoco che resiste alla trasformazione della realtà.

Chiunque sia stato sull’Isola, magari più volte e a distanza di anni, ha potuto percepire direttamente le contraddizioni di un Paese ‘congelato’ nella sua storia, provato nei suoi contrasti, ricchissimo della sua umanità controversa: cultura, istruzione, assistenza sanitaria e sociale, povertà diffusa e prospettive compromesse. Tutti fattori che si sono mescolati in un equilibrio precario e a tratti ‘disperato’.

Poi è arrivata anche la pandemia Covid. E l’equilibrio precario ha perso anche le sue residue possibilità di tenuta. Senza il turismo, senza i dollari e gli euro pompati in un sistema che non può reggere da solo, sono emerse le contraddizioni che non si possono nascondere, quelle di un’economia che non vive di ideologia. Sta succendendo, oggi, quello che senza Covid sarebbe successo con più gradualità.

Cuba, senza turismo, è al collasso. Le proteste di piazza, importanti per la spontaneità e per la consistenza, sono legate alla sopravvivenza, alla disperazione, alla fame. Gli slogan sono significativi. ‘Non abbiamo paura’. Oppure, ‘Yes we can’, le parole di Barack Obama, l’americano capace di essere amato anche dai rivoluzionari, che si mischiano a quelle dei dissidenti, ‘Patria y Vida’, la riscrittura dello slogan della rivoluzione, ‘Patria o Morte’. Sono parole che rivendicano il diritto a esistere come persone, prima ancora che come popolo. La reazione del regime è quella abituale dei regimi: negare la realtà, individuare nei controrivoluzionari i mandanti di proteste che invece sono l’espressione autonoma di un’identità compromessa, innanzitutto dalle pessime condizioni di vita.

La trasformazione di Cuba va avanti da anni, senza una direzione precisa e con il rischio evidente di allargare la distanza tra chi si americanizza grazie al denaro e chi resta ‘rivoluzionario’, come residuo di un blocco sociale e culturale in progressiva consunzione.

Da una parte chi fa affari con l’esterno, dall’altra chi resta nel sistema chiuso. Dell’ultima volta che sono stato a Cuba, era il 2012, ricordo due conversazioni che ancora oggi raccontano il paradosso dell’Isola. Un tassista, a L’Avana, sintetizzava la sua scelta di vita: guadagno in un mese, in dollari, quello che guadagnavo da ingegnere meccanico in tre anni. Lui, nell’ultimo anno e mezzo, deve essere tornato bruscamente indietro. La guida del Museo Historico 26 de Julio, a Santiago de Cuba, spiegava la Rivoluzione ma malediceva il suo smartphone che non poteva avere accesso a Internet: siamo qui, fuori dal mondo. Lui, oggi, avrà sicuramente accesso a Internet e, nell’ultimo anno e mezzo, avrà visto il resto del mondo reagire a Covid senza soffrire la fame.

Oggi saranno presumibilmente tutti e due in piazza a rivendicare la possibilità di costruire un’economia che possa funzionare, lasciando l’ideologia al suo posto, nella storia. Senza nessuno spirito reazionario, ma con la rivoluzione che deve trovare finalmente un approdo contemporaneo, nella realtà.

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