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Draghi, Travaglio e i figli di papà

“Un figlio di papà, che non capisce un cazzo”. Una frase pronunciata da tanti e tante volte. Con più o meno rispondenza nella realtà ma quasi sempre con la stessa, fastidiosa, presunzione. Anche quando i due fattori accostati, la provenienza familiare e le capacità dimostrate effettivamente coincidono. Questa volta, chi ha parlato e il presunto figlio di papà hanno un peso rilevante: Marco Travaglio e Mario Draghi.

Uno fa il giornalista, l’altro il Presidente del Consiglio. Valutare come, perché, in che modo Marco Travaglio faccia il giornalista non è il compito che spetta a un altro giornalista. Valutare come Draghi fa il premier è invece parte delle responsabilità della stampa, ovviamente Travaglio incluso. Che il direttore del Fatto Quotidiano esprima il suo giudizio, fosse anche come è in questo caso un giudizio discutibile nella forma e nella sostanza, è quindi non solo lecito ma auspicabile.

C’è però una questione di merito che prescinde dalle scelte giornalistiche di Travaglio. Quella frase, “un figlio di papà che non capisce un cazzo”, sconta in poche parole diverse declinazioni della deriva populista, qualunquista, pressappochista che negli ultimi due anni ha reso il dibattito pubblico, la politica, e anche il giornalismo un terreno senza più riferimenti e coordinate culturali. La retorica dell’uno vale uno, quella della casta, quella dell’antipolitica si saldano, in maniera plastica, con il più antico dei pregiudizi, quello legato alla provenienza sociale. Il figlio di papà, reale o presunto che sia, è una categoria inutile, residuale, di un altro mondo e di un’altra epoca. E lo è sia nell’accezione negativa, quella usata da Travaglio, sia nella sua versione opposta, quella classista.

Poi c’è il giudizio di merito, il “non capisce un cazzo”. Anche in questo caso, vale la pena ragionare sul valore dell’approssimazione, sorvolando, su quanto capisca effettivamente la realtà Draghi e quanto il suo censore, Travaglio. Quale può essere il senso di un giudizio del genere, palesemente slegato dalla realtà? Evidentemente a Travaglio, al quale sicuramente non difetta la conoscenza della comunicazione, sembra utile a farsi comprendere meglio e a rendere più efficace il messaggio che vuole far passare. Travaglio parla con il linguaggio e con il codice che tiene insieme la ‘sua’ gente.

La sintesi a cui arriva, ‘Draghi è un figlio di papà che non capisce un cazzo’, non ha senso ma funziona. E questo è un enorme problema, per la società, per la politica e per il giornalismo. Molto meno per Draghi, che può sorvolare sul ‘figlio di papà’ e ridere, molto, del ‘non capisce un cazzo’.

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