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Lavoro agile ok, ma il prezzo è giusto?

smart working pmi

Ada lavora in un’azienda editoriale. A metà del 2019, hanno deciso di chiudere le sedi distaccate e di trasferire tutti i dipendenti a Milano. Per lei, che vive a Roma, gestire quel periodo è stato difficile. Impossibile spostare da un giorno all’altro la famiglia, con figlia adolescente e marito che non poteva certo licenziarsi. Così, ha cominciato a fare la pendolare. Poi, a marzo del 2020, è arrivata la pandemia e – come molti – anche Ada ha potuto lavorare da casa. Ora che lentamente si torna alla normalità, la sua azienda le ha fatto una proposta: continuare a lavorare da remoto in cambio però di una adesione volontaria (solamente sulla carta) a un contratto part time. Il ragionamento dell’azienda è semplice: io faccio un favore a te e tu lo fai a me. Eppure Ada è convinta di aver lavorato in questi mesi come faceva prima di Covid e forse anche di più. Ma l’azienda sa bene che lei prima di tutto vuole evitare il trasferimento. Allo stesso tempo, però, anche Ada sa che la società per cui lavora nel mentre ha spostato gli uffici in una sede più piccola, e meno costosa, in cui non ci sarebbero comunque postazioni sufficienti per far lavorare tutti i dipendenti in presenza.

Un caso limite? Forse, perché difficilmente il lavoratore decide di denunciare e avere una casistica è praticamente impossibile. Di certo, un tentativo che va oltre il limite della legalità. La legge dice infatti chiaramente che il lavoratore “che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto a un trattamento economico e normativo non inferiore a quello riconosciuto ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda”. Si tratta della legge 81 del 2017, quella cioè che regola lo smart working, definizione tutta italiana che erroneamente è stata utilizzata nel periodo pandemico per identificare l’home working. Di fatto, invece, si riferisce al lavoro svolto in parte in presenza e in parte da remoto, basato su un accordo volontario, senza l’obbligo di timbrare cartellini ma focalizzato sul raggiungimento di obiettivi e risultati.

Ora che la fase di emergenza sta per chiudersi – la data è quella del 31 dicembre – la domanda che sia datori che lavoratori si fanno è come mettere a frutto quello che hanno imparato, loro malgrado, durante la fase di lockdown. Ma se si parla molto, e giustamente, di concetti come diritto alla disconnessione, fasce di reperibilità o controlli a distanza, ci sono aspetti secondari, ma non marginali, che incidono sulla retribuzione, e che dunque possono anche creare differenze tra chi lavora in presenza e chi lo fa da remoto. “Stiamo attenti che lo smart working non si trasformi in un tentativo di riduzione dei costi da parte dell’azienda. Qualcuno ci ha provato, dobbiamo valutare con attenzione gli abusi”, è l’allarme lanciato da Tiziana Bocchi, Uil, nel corso di un’audizione alla Camera.

Nulla a che fare con scelte come quella di Google. Il colosso americano, che ha 135 mila dipendenti, ha messo a punto una piattaforma, Work location tool, per calcolare la retribuzione per il lavoro a distanza. Dunque, chi per esempio vive a un’ora da New York, verrebbe pagato circa il 15% in meno. Ma si tratta di un calcolo fondamentalmente basato sul costo della vita del luogo in cui il dipendente sceglie di lavorare e, come si diceva, questo è un approccio che in Italia è impossibile per legge. A fare molto rumore, poi, è stata la proposta di Deutsche Bank che prevedeva una tassazione extra del 5% su chi, grazie al lavoro da remoto, ha potuto continuare a operare nonostante la pandemia. E questo – è il ragionamento – per aiutare coloro che durante l’emergenza sanitaria hanno perso il lavoro. Come se la questione riguardasse solo i dipendenti e non le aziende, come se le società che grazie all’home working hanno potuto evitare di fermarsi, non ne avessero tratto un guadagno.

Già, perché strettamente collegato a questo aspetto è il tema della produttività e dei risparmi. Partiamo dai numeri. Secondo le stime dell’Osservatorio ‘Smart working’ della School of management del Politecnico di Milano, nel 2019 erano solo 570mila i dipendenti italiani che avevano sperimentato questa forma di organizzazione del lavoro. Con il primo lockdown sono saliti a quasi 7 milioni in pochi mesi, per poi stabilizzarsi a circa 5 milioni. È possibile quantificare i vantaggi, anche in termini economici, per una parte e per l’altra? Ci ha provato proprio il Politecnico di Milano, come spiega il responsabile scientifico dell’Osservatorio, il professor Mariano Corso.

“Per quel che riguarda le imprese, i vantaggi sono dovuti alla riduzione dei costi, a cominciare da quelli per gli immobili. In esperienze di smart working partite già prima della pandemia – spiega – abbiamo riduzioni tra il 30 e il 50% degli spazi dedicati agli uffici, con impatti significativi sui costi”. Poi ci sono, per esempio, i risparmi sulle trasferte. Ma c’è una voce che secondo Corso è la più importante di tutte: l’aumento di produttività. “C’è un dato del Word economic forum, sicuramente molto autorevole, che si riferisce all’impatto sull’economia americana e parla di 4,6% di aumento della produttività. Sull’Italia, come osservatorio, basandoci su casi specifici, abbiamo dati tra il 10 e il 20% in più di produttività aziendale. Parliamo soprattutto di aziende di servizio in cui lo smart working riguarda una percentuale di lavoratori alta”.

I dipendenti, invece, risparmiano soprattutto su tempi e costi di trasferimento da casa alla sede di lavoro. “Abbiamo quantificato i vantaggi medi. Facendo un calcolo basato su due soli giorni di lavoro a distanza a settimana, il solo fatto di evitare il commuting consente al dipendente un risparmio annuo attorno ai mille euro e di circa 100 ore”, spiega ancora il responsabile dell’Osservatorio.

La versione completa di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di ottobre 2021. Ci si può abbonare al magazine di Fortune Italia a questo link: potrete scegliere tra la versione cartacea, quella digitale oppure entrambe. Qui invece si possono acquistare i singoli numeri della rivista in versione digitale.

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