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I grandi della musica vendono i diritti, i fondi di private equity comprano

La musica dei decenni Settanta e Ottanta sta attirando l’attenzione di fondi di investimento e delle principali etichette musicali a livello globale. Non si tratta solo di una moda, ma di un trend consolidato che sta ridefinendo le regole dell’industria musicale. Grandi quantità di denaro vengono investite nel catalogo musicale di artisti intramontabili, acquisito in blocco per centinaia di milioni di dollari da società di private equity o da giganti come Sony o Universal Music.

Un esempio recente è quello di David Bowie, con la Warner Bros che ha messo insieme oltre 500 milioni di dollari, secondo il Financial Times, per acquisire la straordinaria produzione discografica del Duca Bianco. E a metà del costo necessario per acquisire i diritti sulla produzione di Bowie, l’Universal Music Group sta cercando di chiudere un accordo anche con Sting. Spotify, Discord, Apple Music, YouTube Music: esiste un arcipelago di applicazioni che rappresentano il nuovo corso della musica in formato streaming, stimolando l’appetito dei colossi finanziari che sono attratti dalle prospettive di utilizzare intensivamente quella musica e quei brani, che poi possono essere venduti per spot pubblicitari, film e produzioni televisive.

L’obiettivo è diversificare le fonti di reddito, per evitare la saturazione del sistema e generare profitti negli anni. Infatti, acquisendo i diritti sulla produzione degli artisti, è possibile utilizzare il materiale fino a 70 anni dopo la morte del musicista che ha ceduto i diritti, in cambio di consistenti royalty. Certo, c’è il rischio di un eccessivo sfruttamento commerciale delle canzoni, perdendo così la parte romantica e affascinante della musica. Tuttavia, ci sono in gioco enormi quantità di denaro, milioni di dollari, che relegano le emozioni e i sentimenti in secondo piano.

BOWIE, IL BOSS, I RED HOT: TUTTI VENDONO PER I NIPOTINI

La strada è stata tracciata molti anni fa da Michael Jackson, il re del pop, che acquistò il catalogo dei Beatles per meno di 50 milioni di dollari. Successivamente, il materiale discografico di Jackson è stato ceduto nel 2016 a Sony per 750 milioni di dollari dai suoi eredi (egli è morto nel 2009). Poco prima della notizia riguardante la trattativa in corso per le canzoni di Bowie, anche Bruce Springsteen ha deciso di capitalizzare i suoi 50 anni di carriera, vendendo il suo catalogo a Sony. Springsteen lavora con la Columbia Record (che fa parte di Sony) dal 1972. Inizialmente aveva acquisito i diritti sulla sua musica e successivamente li ha venduti. Ovviamente, la pandemia ha avuto un ruolo importante in questa decisione, con lo stop degli spettacoli dal vivo e le limitazioni sui concerti. Così, le icone del rock si sono sedute al tavolo, pianificando il loro futuro e monetizzando il loro patrimonio, a gioia dei loro eredi.

L’elenco degli artisti che hanno venduto i loro cataloghi è lungo e di altissima qualità: l’anno scorso Bob Dylan ha venduto l’intera sua produzione discografica a Universal Music per 400 milioni di dollari. Poi, Paul Simon ha ceduto i diritti delle sue canzoni a Sony per i prossimi 60 anni. Mick Fleetwood dei Fleetwood Mac ha venduto il suo catalogo a BMG. Ma non sono solo le etichette musicali a investire nei cataloghi degli artisti, anche i fondi di private equity sono coinvolti: l’Hipgnosis Songs Fund ha investito 140 milioni di dollari nei Red Hot Chili Peppers, secondo la rivista Billboard. Lo stesso fondo ha investito 150 milioni di dollari per acquisire il 50% della produzione di Neil Young, incluso un classico intramontabile come “Heart of Gold”.

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