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La guerra per le terre rare è ancora un affare Usa-Cina (per ora)

Si profila all’orizzonte un nuovo ordine mondiale in cui la politica sta gradualmente cercando di affrontare importanti mutamenti in corso, inclusi i cambiamenti nei bilanci geoeconomici. Tuttavia, esistono alcuni fattori che da tempo hanno un impatto significativo sull’architettura del sistema economico globale, anticipando l’intervento politico. Tra questi fattori cruciali figura la produzione e la lavorazione di metalli e minerali fondamentali utilizzati nella fabbricazione di prodotti ad alta tecnologia.

Potremmo dire che si sta verificando una competizione tra il blocco occidentale e quello asiatico nell’ambito dell’innovazione tecnologica. Questa competizione tra Cina e Stati Uniti ha radici profonde ed è emersa ben prima delle recenti tensioni legate alla guerra in Ucraina. Il fulcro di questa “contesa” ruota attorno alle terre rare, un gruppo di 17 metalli, tra cui il cerio, il lutezio, l’itterbio e il lantanio, elementi il cui nome è in gran parte sconosciuto al pubblico ma che svolgono un ruolo essenziale nella produzione di dispositivi informatici, tablet, smartphone, televisori ed elettrodomestici. Questi metalli sono altrettanto cruciali nell’industria della difesa, ad esempio per la produzione di radar e sonar, e hanno applicazioni importanti anche nel campo dei trattamenti medici e nella transizione verso fonti energetiche più sostenibili, come nel caso delle automobili ibride.

La Cina è attualmente il paese con le riserve più ricche di terre rare al mondo e ha detenuto una posizione dominante, controllando fino al 90% della produzione globale fino a tempi relativamente recenti. Questo vantaggio cinese si basava su diversi fattori chiave, tra cui la padronanza delle complesse tecniche di estrazione di questi metalli, normative ambientali meno rigorose che consentivano l’uso di solventi e soluzioni inquinanti nella separazione dei metalli dai minerali circostanti, e strutture di lavorazione avanzate e costose per mettere i prodotti sul mercato.

Gli Stati Uniti, d’altra parte, hanno sviluppato un notevole vantaggio nella produzione di chip, che costituiscono un pilastro essenziale per i circuiti integrati, giocando un ruolo cruciale sia nella difesa che nell’industria dell’alta tecnologia. Tuttavia, questa reciproca dipendenza non è mai stata gradita da nessuna delle due parti coinvolte. Da diversi anni, Pechino ha cercato di potenziare la sua produzione di chip per ridurre la sua dipendenza dagli Stati Uniti e per eludere le restrizioni imposte dalle diverse amministrazioni statunitensi per proteggere le loro tecnologie. Dall’altra parte, Washington, consapevole del rischio di una eccessiva dipendenza dai preziosi metalli cinesi, ha investito tempo ed risorse per incrementare l’estrazione di tali risorse nei siti presenti sul territorio americano.

Oggi, come spiega il professore Filippo Fasulo, Co-head Geoeconomics di Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale, “anche altri Paesi si sono messi ad aumentare la loro produzione di terre rare e gli ultimi dati ci dicono che la quota cinese è scesa al 60%. Una riduzione molto significativa che chiarisce che questi metalli non sono solo in Cina. In precedenza sono state estratti prevalentemente lì per una questione di costi”. Il professore sottolinea che “quando parliamo di terre rare il ‘raro’ è riferito alla concentrazione del minerale, ma quello che incide è sostanzialmente il costo dell’estrazione e la volontà di sobbarcarsi gli oneri ambientali. Fino a qualche anno fa la Cina è stata l’unico Paese che si è occupato di questa specifica estrazione”.

Cosa è cambiato allora? “Con l’aumentare delle schermaglie e della esigenze di ridurre la dipendenza reciproca, altri Paesi hanno iniziato o incrementato la produzione. Attualmente gli Stati Uniti sono i secondi produttori al mondo con il 15,4%, seguiti dal Myanmar e dall’Australia con il 9%. C’è poi una questione di riserve che vede sicuramente la Cina prevalere”. I dati aggiornati che Fasulo fornisce dicono che lo Stato asiatico “è il primo Paese al mondo per riserve, che rappresentano però ‘solo’ il 37% del totale. Ci sono anche Vietnam, Russia e Brasile, ciascuno con il 18% della quota totale”. Dunque “esistono altri Stati che, se i costi fossero affrontabili, potrebbero diventare una nuova fonte di approvvigionamento. Dalle riserve e dall’andamento delle quote di produzione si vede che la diversificazione è possibile sul medio e lungo periodo”.

Tuttavia la concorrenza tra le due superpotenze è destinata a durare e i due blocchi a persistere. Per un motivo fondamentale secondo l’analista di Ispi: “Se l’interdipendenza è asimmetrica, cioè uno degli attori ha un peso maggiore, questo può essere utilizzato in modo strategico per costringere gli altri a seguire la propria volontà. L’abbiamo visto per la prima volta durante la pandemia in relazione alla domanda di mascherine, ventilatori, vaccini. Oggi con la guerra in Ucraina ci siamo resi conto ancora di più del fatto che far leva su un bene, e su un flusso finanziario su cui si è il maggiore referente, è davvero un’arma”.

Quanto Stati Uniti e Cina siano in contrapposizione non solo sul piano politico, ma anche su quello economico, è determinante per comprendere alcune dinamiche in atto nel complesso scenario che si è creato con l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina. E’ difficile immaginare che nelle otto ore di colloquio di tre giorni fa a Roma tra il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, e il responsabile Affari Esteri del Comitato centrale comunista, Yang Jiechi, sul tavolo non siano state messe anche le relazioni economiche, nel tentativo di trovare un varco che avvicini le due superpotenze e spinga Pechino ad esercitare pressioni su Mosca. “C’è sicuramente l’interesse a trovare una soluzione pacifica alla crisi in tempi brevi per la drammatica situazione umanitaria e per ritrovare la stabilità che serve per riprendere a concentrarsi sull’economia”, continua Fasulo, ma niente illusioni. “Nel medio e lungo periodo l’impressione è che ci sarà attenzione da parte di tutti a ridurre le dipendenze reciproche. La lezione imparata dalla pandemia e con la crisi ucraina è che se io sono esposto nei confronti di un altro Paese, questo Paese prima o poi può usare la leva contro di me”.

A conferma di quanto detto ci sono le “sanzioni del 2014 nei confronti dei russi che hanno indotto Mosca a ridurre l’esposizione finanziaria nei confronti degli Stati Uniti”. Di sicuro “anche in caso di una pace siglata domani” la Federazione russa “non andrà a esporsi di nuovo con gli Stati Uniti. Così come noi non riprenderemo a essere dipendenti dalla Russia dal punto di vista energetico. La lezione è imparata. Nessuno metterà più il coltello in mano all’altro”.

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