In Italia si continua a parlare di grandi dimissioni e i dati sembrano confermare il trend crescente del fenomeno. Poca attenzione, invece, si è posta fino a oggi su cosa accade dopo che i lavoratori si licenziano. Partendo dai dati aggiornati al quarto trimestre 2021 diffusi dal ministero del Lavoro e dall’analisi di Francesco Armillei, assistente di ricerca presso la London School of Economics e socio del think tank Tortuga, cerchiamo di capire come si comportano i lavoratori dopo aver lasciato il posto di lavoro.
Come riporta l’ultima nota trimestrale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, nel quarto trimestre del 2021 le attivazioni di nuovi contratti di lavoro sono risultate pari a 2 milioni e 889mila, in aumento del 23,5% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente (pari a +550 mila contratti), e hanno riguardato 2 milioni e 143mila lavoratori, con un aumento tendenziale di +19,6% (pari a oltre 351 mila individui). Considerando anche le trasformazioni a tempo indeterminato, pari a poco più di 243mila, il numero complessivo di attivazioni di contratti di lavoro raggiunge 3 milioni 132mila, in crescita del 22,9%, pari a 583 mila in più rispetto al corrispondente periodo del 2020.
Andamento del mercato italiano nel IV trimestre 2021
Secondo il rapporto, aumentano i contratti a tempo indeterminato (+33mila), quelli a tempo determinato, pari a un milione 921mila (+313mila rapporti di lavoro), e con tassi nettamente superiori crescono anche le attivazioni relative ai contratti di apprendistato (+58,8%). Stessa tendenza si registra per i contratti di lavoro intermittenti. L’aumento è maggiore negli uomini (+22,6%) rispetto a quello delle donne (+16,4%). La crescita riguarda principalmente gli individui con età fino a 24 anni (+56,3% per le donne e +47% per gli uomini). A diminuire (-3,6% rispetto allo stesso trimestre del 2020) sono invece i contratti di collaborazione.
Per quanto riguarda le cessazioni, tra ottobre-dicembre 2021 si registrano 3 milioni 497mila cessazioni di contratti di lavoro, con un incremento pari al 18,7% (+551 mila unità) rispetto allo stesso trimestre del 2020. Al numero di cessazioni osservate nel trimestre si associano 2 milioni 663mila lavoratori, con un incremento di 335 mila individui (pari a +14,4%). In generale, il saldo tra attivazioni e cessazioni è attivo: la crescita delle cessazioni risulta comunque inferiore a quella osservata per le attivazioni.
I rapporti di lavoro cessati registrano un incremento che interessa in misura superiore la componente femminile (+19,4%) nei confronti di quella maschile (+18,2%) e riguarda tutte le aree geografiche, mostrando un tasso di variazione superiore nel Nord (+23,9%, pari a +275mila), rispetto al Centro (+19,9%, pari a +132mila) e al Mezzogiorno (+12,8%, pari a +144mila). La maggior parte delle cessazioni (64,2%) si è concentrato nel settore dei servizi. Segue il settore industriale, che rappresenta il 13,2% del totale dei rapporti cessati, mentre le costruzioni registrano la crescita più elevata in termini percentuali (+23,9%, pari a +35mila).
Tra le cause di cessazione le variazioni più significative si registrano nelle dimissioni volontarie, con un incremento del 42,3%, pari a +166mila rapporti cessati, e nei licenziamenti, che crescono del 45,8% (+62mila). Decrescono invece i rapporti cessati causa pensionamento (-1,5%), così come quelli per cessazione di attività (-5%) e per altre cause (-2,8%).
Sud Italia maglia nera della disoccupazione in Europa
Delle cinque regioni europee con l’occupazione più bassa, ben quattro sono italiane. Tutte del sud Italia: Campania, Sicilia, Calabria e Puglia. È quanto emerge dagli ultimi dati pubblicati da Eurostat sul mercato del lavoro europeo nel 2021. Chi registra la performance peggiore è la Sicilia, con un tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni pari al 41,1%; seguono la Campania con il 41,3%, la Calabria con il 42% e la Puglia con il 46,7%: tassi di gran lunga inferiori alla media europea che si attesta attorno al 68,4%.
Anche sull’occupazione femminile non arrivano buone notizie: Campania e Sicilia, con il 29,1%, e Calabria, con il 30,5%, detengono il primato negativo in Ue. All’estremità opposta della classifica troviamo invece la regione finlandese dell’Aland, che vanta un tasso di occupazione femminile dell’83,5%.
Si conferma anche il noto divario tra Nord e Sud della nostra Penisola. Mentre la media occupazionale nel nostro Paese si attesta al 58,2%, con picchi del 70% nella provincia autonoma di Bolzano, nel meridione il tasso scende di quasi trenta punti percentuali. In generale, a nord ovest del Paese il tasso di occupazione è pari al 65,9%, mentre a nord est si attesta intorno al 67,2%: livelli più in linea con l’andamento europeo. Il peggior risultato tra i 27 Paesi Ue è però quello della Grecia, che nonostante presenti meno differenze territoriali, riporta un tasso di occupazione fermo al 57,2%. Un livello comunque superiore di oltre dieci punti percentuali rispetto a quello registrato nel sud Italia (45,2%). Le disparità si riflettono anche sul fronte dell’istruzione e del genere: per il totale dei laureati (uomini e donne), il tasso di occupazione nell’Ue è dell’84,9%, nella regione tedesca di Dresda del 90%, mentre la media italiana si attesta al 79,2%. Se in Lombardia la media sale all’84,3%, in Campania scende al 68,2% e in Calabria al 65,3%. Nel nostro Paese anche il tasso di occupazione per le donne laureate (76,4%) risulta più basso di quello Ue (82,5%). Anche in questo caso, se il nord si avvicina alla media (in Lombardia è attorno all’82%), il sud rimane arranca (con il 64% in Campania e il 59,4% della Calabria).