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Tra Ets e tassonomia, lo Stop and go del Green Deal europeo

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Un andamento piuttosto sincopato quello del Green Deal europeo che, solo nelle ultime settimane, ha visto il Parlamento assestare brusche frenate ai tentativi di “fuga in avanti” della Commissione sulle politiche per la transizione energetica, grazie a una alleanza ampia e trasversale tra i gruppi parlamentari.

Stop …

I primi segnali erano già arrivati con il voto della scorsa settimana sulla riforma dei permessi sulle emissioni, gli EU-ETS (una delle principali misure dell’Unione Europea per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra nei settori industriali), che ha portato a una lunga negoziazione tra le parti e risultati differenti rispetto a quanto previsto dalla stessa Commissione.

Nello specifico, le maggiori modifiche hanno riguardato la riduzione del periodo di eliminazione delle quote gratuite di CO2, ridotto a 6 anni (2027- 2032) rispetto ai 10 inizialmente previsti (2026-2035); la riduzione dal 63% al 61% della percentuale delle emissioni delle industrie coperte dal sistema ETS entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005, l’avvio della tassa alla frontiera sulla CO2 (CBAM) posticipato al 2033 e l’estensione a nuovi materiali. Modifiche importanti che tuttavia hanno permesso di ottenere la conferma del Parlamento senza ulteriori problemi.

Il vero coup d’etat del Parlamento è arrivato il 14 giugno quando le commissioni Ambiente ed Economia, per soli 14 voti, sono riuscite a far passare un’obiezione al secondo atto delegato allo scopo di respingere l’inclusione delle attività energetiche derivanti da fonti nucleari e gas fossile all’interno della tassonomia che definisce le attività economiche sostenibili. Motivo? Le norme di controllo tecnico non soddisfano i criteri green.

Vale la pena ricordare, infatti, che secondo tale tassonomia, un’attività può essere considerata sostenibile se risponde almeno ad uno dei sei obiettivi ambientali: mitigazione del cambiamento climatico; adattamento al cambiamento climatico; protezione risorse idriche; transizione verso economia circolare; riduzione dell’inquinamento; protezione delle diversità.

Nonostante ciò, la “ragion di stato” alla fine ha prevalso e, sebbene molti eurodeputati abbiano rilevato la mancanza di una netta rispondenza a tali criteri, non hanno potuto esimersi dall’ammettere quanto, allo stato attuale, gas e nucleare rivestano un ruolo fondamentale nella partita della stabilizzazione energetica finalizzata a favorire la transizione europea e il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità prefissati.

…and go!

Cinquanta voti. È questo il numero che ha fatto la differenza permettendo di raggiungere il risultato auspicato dalla Commissione. Dietro quel numero, tuttavia, c’è molto di più: a livello politico una netta difficoltà dei partiti a mantenere i ranghi, dinanzi a temi che toccano la sensibilità dei singoli, che ha comportato la “frantumazione” di alcune compagini; a livello tecnico, invece, sono stati inseriti rigidi paletti a gas e nucleare che per riuscire ad attrarre investimenti dovranno garantire la promozione di innovazione, sviluppo tecnologico e risparmio energetico.

Ma cosa può aver influito?

Non vi è dubbio che, al di là delle questioni meramente tecniche, la guerra russo-ucraina abbia avuto un peso non indifferente su una questione che, già in “fase istruttoria”, presentava una componente economico-(geo)politica preponderante.

Se a gennaio, infatti, l’inserimento di tali fonti era funzionale alle politiche energetiche francesi e tedesche che necessitavano ingenti investimenti per la gestione transitoria della decarbonizzazione, ora lo scontro tra le correnti poneva da un lato il cosiddetto “finanziamento” alla Russia quale problema politico, economico ma anche sociale, dall’altro la necessità di garantire il raggiungimento degli obiettivi di stoccaggio necessari per affrontare il prossimo inverno.

La guerra in Ucraina ha, difatti, posto in evidenza le crepe della strategia energetica europea, nonché la fragilità derivante dalla sua dipendenza dalla Russia, tenuto conto che come rilevato dal rapporto del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA) – un think tank finlandese – dallo scorso 24 febbraio ad oggi, l’Unione Europea ha versato quasi 65 mld di euro nelle casse del Cremlino per l’approvvigionamento di petrolio e gas, di cui la componente rappresentata da quest’ultimo è di circa 28 mld di euro.

All’aspetto economico, si aggiunge quello politico-strategico derivante dalla continua riduzione di forniture di gas avviate da Gazprom nelle scorse settimane, e destinate a proseguire; questi elementi determinano una situazione di debolezza energetica che l’Europa è chiamata ad affrontare e risolvere nel più breve tempo possibile.

Infine, non si può trascurare l’aspetto “sociale”, rappresentato dalla missiva pervenuta, il giorno prima della votazione, da Kiev, con la quale il governo ucraino ha invitato l’Europa a non abbandonare la strada del gas e nucleare, in quanto una simile scelta avrebbe avuto grave impatto negativo sul Paese, andando a indebolire le maggiori fonti di finanziamento della ripresa e ricostruzione post bellica dell’Ucraina.

Le conseguenze per l’Italia

L’Italia, si trova certamente nella posizione più scomoda in quanto il finanziamento a gas e nucleare riduce gli investimenti disponibili verso le altre fonti verdi su cui ha fortemente virato il nostro Paese o quanto meno crea maggiori difficoltà.

Tuttavia, il nostro sistema, sta garantendo una forte capacità di adattamento e capacità di contrastare gli effetti negativi derivanti dagli attuali sconvolgimenti, lavorando con la strategia del doppio binario, il primo di breve periodo, come dimostrano sia gli accordi governativi per un maggiore approvvigionamento di oil&gas tramite Eni, che l’acquisto di un nuovo rigassificatore annunciato ieri da parte di Snam che permetterà di aumentare le importazione di Gpl; il secondo di lungo periodo, che punta a una politica di maggiore lungimiranza, in controtendenza rispetto a Parigi e Berlino, più focalizzata sulla valorizzazione di nuove opportunità offerte dall’innovazione, dalla Ricerca e dalla trasformazione digitale su cui fondare la propria politica di decarbonizzazione, di cui è prova l’investimento di 8,6 mld di euro fino al 2028 in biometano e idrogeno, annunciati da Italgas solo poche settimane fa.

Ad ogni modo, non v’è dubbio che l’esito della votazione del 6 luglio, in cui sono emerse le differenti posizioni ideologiche e gli interessi politici dei singoli Paesi, pone ancor più l’accento sul processo di transizione energetica europea e avrà significativi effetti sulla necessità di creare una strategia comune di coordinamento dell’Unione. È in tale contesto che la convocazione di un vertice dei Ministri dell’Energia per il 26 luglio, assume un’importanza cruciale.

 

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