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Crisi dei chip, nella corsa USA-Cina l’Europa prova a recuperare

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“È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie” affermava Einstein, ed è quello che sta avvenendo attorno alla “crisi dei chip” che da due anni, ormai, è al centro delle questioni economiche mondiali, determinando ritardi nella supply chain, rallentamenti nella ripresa economica post pandemica e soprattutto un inasprimento delle tensioni geopolitiche, soprattutto tra Usa e Cina.

Difatti, sebbene il settore dei microchip sia al centro di una competizione tra queste due potenze, nella realtà nessun Paese ha la gestione dell’intera catena di produzione di semiconduttori che, invece, vede Taiwan, Corea del Sud, Cina, Giappone e Sud-Est asiatico rivestire un ruolo preponderante nella produzione e distribuzione (solo Taiwan e Corea del Sud sono in grado di produrre chip di ultima generazione), mentre gli Stati Uniti primeggiano nella ricerca.

E l’Europa? Secondo l’European Semiconductors Industry Association la quota europea di produzione dei chip nel mercato globale è passata dal 40% degli anni ‘90 al 10% nel 2020. Una debacle derivante da scelte strategiche inversamente proporzionali all’importanza rivestita dal settore in questi ultimi decenni.

La Commissione Europea ha calcolato che nel 2021 sono stati fabbricati più di 1000 miliardi di chip nel mondo, con una domanda che è in continua crescita grazie alla transizione digitale che sta rimodellando interi settori legandoli sempre più ai semiconduttori.

Ciò, come detto, ha evidenziato i limiti all’interno del sistema e determinato un ritorno a un approccio meno globalizzato a favore di un sistema produttivo più locale e a politiche di reshoring. Lo dimostrano l’“European Chips Act” approvato lo scorso febbraio dalla Commissione Europea e ora al vaglio del Parlamento e il “Chips and Science Act of 2022” firmato dal presidente Biden il 9 agosto.

Piani il cui scopo è quello di riportare al centro dell’arena Ue e Stati Uniti e che, forse tardivamente, rappresentano una risposta al Piano Made in China 2025 varato nel 2015 e grazie al quale il governo di Pechino ha investito 85 mld di euro nel settore dei semiconduttori al fine di soddisfare, entro i prossimi quattro anni, il 70% della domanda interna di chip.

Se le due sponde dell’Atlantico partono da quote di mercato simili e da una posizione di svantaggio rispetto a una Cina già in corsa, l’approccio è molto differente già a livello strategico.

L’Unione Europea con il suo Chips Act si è posta l’obiettivo di sviluppare una leadership europea nella produzione di semiconduttori costruendo una filiera capace di raddoppiare gli attuali risultati, entro il 2030, mobilitando circa 43 miliardi (tra pubblico e privato) al fine di dotare le aziende di quanto necessario dal punto di vista finanziario, regolamentare e tecnico per raggiungere tale risultato.

Tuttavia il diavolo è nei dettagli e quando si sommano i termini “mobilitare” e “fonti pubbliche e private” la preponderanza delle seconde sulle prime è scontata. Difatti come emerge dalla relazione tecnica, l’incidenza reale a bilancio dell’UE sarà di 3,3 miliardi di euro che si aggiungeranno al bilancio già destinato alle attività nel settore della microelettronica determinando una somma di quasi 5 miliardi. Il resto deriverà da investimenti pubblici dei Paesi Membri e istituzioni che dovranno creare quell’importante effetto leva necessario per raggiungere un reale sviluppo del settore.

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In questa foto del 9 agoto 2022, Joe Biden firma il CHIPS and Science Act of 2022. Il disegno di legge ha lo scopo di ridurre il costo dei beni, rafforzare la manifattura e l’innovazione americane e creare posti di lavoro per rafforzare la sicurezza economica e nazionale degli Stati Uniti (Credit Image: © Ron Sachs – Pool Via Cnp/CNP via ZUMA Press Wire)

Gli Stati Uniti, differentemente dal vecchio continente, hanno assunto un approccio più “pragmatico” al fine di rivitalizzare la produzione nazionale dei semiconduttori e aumentare la competitività degli Stati Uniti sul mercato mondiale. Hanno attuato una strategia a due livelli, da un lato una politica espansiva verso l’interno, dall’altro più restrittiva verso l’esterno.

Il Chips and Science Act of 2022 prevede, nello specifico, lo stanziamento di 52 miliardi di dollari in cinque anni alle società che produrranno i chip negli Stati Uniti, di cui: 39 miliardi di dollari per espandere la produzione nazionale di semiconduttori attraverso incentivi per la costruzione, l’espansione e l’ammodernamento degli impianti e delle attrezzature statunitensi; 11 miliardi di dollari destinati alla ricerca e lo sviluppo nella produzione avanzata di semiconduttori; altri 1,5 miliardi di dollari finanzieranno il Public Wireless Supply Chain Innovation Fund per limitare il raggio d’azione di altre aziende di telecomunicazioni cinesi o che abbiano stretti legami con la Cina (Huawei).

A questi fondi pubblici, bisogna aggiungere il riconoscimento del 25% di tax credit per le aziende che investono in attrezzature per la produzione di semiconduttori o nella costruzione di impianti di produzione.

Washington, al fine di recuperare terreno nei confronti dei suoi competitor, ha avviato, contestualmente, politiche restrittive sia per l’esportazione di chip di Intelligenza Artificiale in Cina e Russia, sia per l’accesso agli strumenti per la produzione di chip più avanzati nei confronti delle aziende cinesi.

Non solo chip

Con la legge “Inflation Reduction Act of 2022” firmata il 16 agosto scorso, Biden ha deciso di puntare in maniera decisa sul comparto automobilistico perseguendo l’ambizioso obiettivo di raggiungere, entro il 2030, il 50% di veicoli ad alimentazione elettrica venduti.

Il modello adottato da Biden è il medesimo già visto per la legge sui semiconduttori: incentivare la fabbricazione di vetture, riorganizzare le catene di approvvigionamento del settore così che il componente più importante dei veicoli elettrici sia prodotto sul suolo americano.

In pratica la stessa politica della “carota (dentro i confini) e del bastone (fuori dai confini)”, ma settore differente sebbene direttamente connesso e danneggiato dalla crisi dei chip: l’automotive.

L’ha fatto inserendo l’intervento in un disegno di legge nato per contenere l’inflazione, per favorire e accelerare la transizione ecologica, ma che, oltre alle misure per la riduzione del deficit, un maggiore sostegno alla sanità pubblica, prevede anche un importante intervento statale mirato al rafforzamento del piano di decarbonizzazione nazionale, destinando 370 miliardi di dollari (su 740 totali) a misure che favoriscono la transizione energetica, tra cui gli incentivi per l’acquisto di veicoli elettrici. Un progetto che ridisegna completamente il sistema industriale americano.

Ciò, quindi, spiega anche le misure introdotte dal provvedimento di Biden che prevede, a partire dal 1 gennaio 2023, incentivi per l’acquisto di auto elettriche con un credito di imposta di 7500 dollari per ogni auto elettrica acquistata, purché questa sia stata assemblata in Nord America e i materiali e i “minerali critici” delle batterie devono avere origine negli Stati Uniti o in un Paese con un accordo di libero scambio con Washington.

Una misura che mira a stimolare la produzione nazionale, diversificare le fonti di approvvigionamento e ridurre il peso della Cina nel mercato interno anche in risposta ad alcuni dati di mercato:

  • gli USA hanno il primo produttore sul mercato (Tesla) che nel primo trimestre del 2022 ha registrato il 57% delle immatricolazioni di auto elettriche; un primato che deve essere incrementato attraverso la crescita del comparto
  • il mercato delle batterie elettriche registra il 76% di forniture provenienti dalla Cina e solo dell’8% dagli Stati Uniti
  • gli Usa hanno raggiunto e superato il 5% di immatricolazioni di auto elettriche nei primi 6 mesi di quest’anno, con un importante ritardo rispetto a Cina ed Europa hanno già raggiunto, rispettivamente, il 26% ed il 21%
  • il sorpasso – per la prima volta in oltre 90 anni – di vendite sul suono nazionale di una casa automobilistica straniera (Toyota) ai danni della General Motors.

Tuttavia, gli effetti di tale misura presentano due controindicazioni: la prima, di carattere industriale, deriva dal fatto che i requisiti imposti renderanno la maggior parte dei veicoli non idonei per l’incentivo e richiederà alle case automobilistiche statunitensi immediati sforzi in investimenti per correre ai ripari. Pertanto, almeno nell’immediato, non risulta creare un vantaggio competitivo; la seconda, invece, ha natura geopolitica e risiede nella discriminazione che, difatti, i produttori stranieri subiscono con l’applicazione di tali misure.

La risposta della Commissione europea, come prevedibile, ha immediatamente preso una dura posizione contro gli elementi discriminatori denunciandone l’incompatibilità del provvedimento con le regole del commercio transatlantico, riaccendendo gli antichi dissapori che sono stati alla base dell’affaire Boeing-AirBus conclusosi lo scorso anno.

E la Cina? In realtà Pechino sta attuando una politica “dei due forni” al fine di rilanciare il mercato interno stanziando, da un lato, circa 9 miliardi di incentivi per l’acquisto di auto ad alimentazione termica, ponendo però delle condizioni che in pratica agevolano i costruttori nazionali (cilindrata max 2000 cc e prezzo massimo di vendita 45.000 euro) e, dall’altro lato, ha prolungato l’esenzione dalle tasse per l’acquisto dei veicoli a nuova energia (full electric, ibridi plug-in e a idrogeno) fino alla fine del 2023, per un costo di oltre 14 miliardi di euro.

La crisi pandemica prima e la seguente “chips crunch” hanno mostrato i limiti del sistema e offerto nuove opportunità che l’Europa sembra voler cogliere per affermarsi come nuovo player all’interno del confronto USA-Cina per il mercato dei semiconduttori.

La posizione assunta dall’Ue ha cambiato gli equilibri e i rapporti di forza internazionali e potrebbe aver dato avvio se non a una vera e propria deglobalizzazione, almeno a una nuova versione di globalizzazione, che al momento si avverte su mercati chiave (vedi semiconduttori e mobilità elettrica) ma che potrebbe dar vita a un nuovo corso di politica industriale e commerciale internazionale.

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