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Digitalizzazione, se il data center non è sostenibile

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La crescita esponenziale nell’utilizzo delle tecnologie digitali è certamente un abilitatore della transizione sostenibile, tuttavia può anche rappresentare un ostacolo. I dispositivi digitali dovrebbero favorire la sostenibilità e la transizione verde. È questo uno degli ambiziosi obiettivi al centro della Bussola 2030, varata dall’Unione Europea. Questa prevede che il 75% delle aziende europee utilizzi servizi cloud entro lo stesso anno grazie all’utilizzo di centri dati neutrali dal punto di vista climatico, altamente sostenibili ed efficienti dal punto di vista energetico.

Ma è davvero possibile? Per rispondere è necessario valutare il tema sotto i diversi punti di vista che vanno al di là del semplice rapporto costi-benefici.

La crescente domanda di servizi di data è nella maggior parte dei casi compensata dai continui miglioramenti nell’efficienza di server, tuttavia, nonostante l’idea della “nuvola” come luogo in cui si svolgono tutti i processi. Il mondo digitale, infatti, si fonda su server fisici, chilometri di cavi sottomarini, switch e router, che richiedono un consumo crescente di energia per funzionare e l’estrazione di minerali rari e un elevato consumo di acqua e combustibili fossili.

È per tale motivo che la disponibilità e i prezzi dell’energia hanno sempre giocato un ruolo nel complesso calcolo della scelta di un luogo per un nuovo centro di produzione.

Tuttavia oggi, alla luce dei cambiamenti climatici e all’innalzamento delle temperature, anche la disponibilità di acqua e il consumo di suolo hanno iniziato a rivestire una parte determinante nell’individuazione della sede, rendendo tale scelta ancora più complicata. È sufficiente osservare cosa è successo questa estate.

Le temperature elevate che hanno colpito l’Europa negli ultimi mesi hanno causato nelle sedi inglesi di Oracle e Google alcune interruzioni per sovraccarico degli impianti di raffreddamento, costringendo parte dell’infrastruttura cloud ad arresti protettivi.

Sebbene la maggior parte dell’energia nei data center, infatti, viene utilizzata per alimentare i server, questi devono essere costantemente raffreddati richiedendo energia quando si utilizza il tradizionale raffreddamento ad aria, oppure acqua quando i server vengono raffreddati tramite l’evaporazione dell’acqua.

Il reiterarsi di condizioni estreme, che determinano sconvolgimenti nella normale gestione della quotidianità, e il contesto internazionale, che pone dei dubbi persino sulla programmazione delle politiche energetiche nazionali, può comportare per un territorio il dover scegliere tra l’attrazione di investimenti (e relativa crescita economico occupazionale) e la salvaguardia dei livelli energetici a disposizione della propria popolazione.

Un dilemma che si potrebbe porre per l’impianto di chip progettato da Intel nella città tedesca di Magdeburgo (realizzato sulla base dell’European Chips Act) che, una volta entrato in funzione, potrebbe raddoppiare il consumo energetico della città.

Il produttore di chip statunitense sta investendo 17 miliardi di euro nell’impianto a cui si aggiungeranno ulteriori fondi e finanziamenti pubblici, vista l’importanza del progetto che intercetta le necessità dell’Unione Europea di incrementare la produzione di chip al suo interno in risposta al chip crunch.

Tuttavia, se da un lato il progetto rappresenta un’enorme opportunità per la città, creando migliaia di posti di lavoro in un’area con un tasso di disoccupazione superiore alla media, dall’altro richiederà la costruzione di una nuova sottostazione elettrica per alimentarlo.

Intel, infatti, si è impegnata a utilizzare solo elettricità rinnovabile a partire dal 2030, ma tenuto conto che questo impianto entrerà in funzione nel 2027 ciò potrebbe creare non pochi problemi alla città per i primi anni.

Chi invece ha già fatto la sua scelta è Zeewolde, una municipalità di 20.927 abitanti dei Paesi Bassi, a soli 500 km da Magdeburgo. Questa estate Meta Platforms ha definitivamente abbandonato i piani per la costruzione di quello che sarebbe dovuto diventare il più grande centro dati dei Paesi Bassi (con cinque sale dati e un consumo di 200 MW). La scelta è causata da vari fattori: in testa le contestazioni per l’eccessivo utilizzo di energia che una simile struttura avrebbe determinato e alle resistenze del governo olandese verso la costruzione di un cosiddetto “hyperscale data center” non adeguato ad alti requisiti di sostenibilità previsti dalla legislazione.

Il settore tecnologico, difatti, produce il 4% delle emissioni globali di gas serra e, con il trend attuale, potrebbe raggiungere il 14% entro il 2040 e sebbene sempre più Big tech abbiano abbracciato una politica improntata sulla sostenibilità. Lo hanno fatto Google e Meta che si impegnano a utilizzare per le loro attività il 100% di energia rinnovabile, i data center che servono per far funzionare le applicazioni utilizzate da milioni di utenti necessitano di energia e acqua, e ne avranno ancora più bisogno nei prossimi anni.

Il fatto di soddisfare il 100% della domanda annuale con acquisti o certificati di energia rinnovabile non significa che centri di dati siano effettivamente alimentati esclusivamente da fonti rinnovabili.

Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), i data center costituiscono l’1% della domanda globale di elettricità, escludendo le attività legate al mondo delle criptovalute a cui si deve aggiungere il consumo delle reti di trasmissione dati che nel 2020 hanno utilizzato tra l’1,1% e l’1,4% della domanda globale di elettricità.

Le criptovalute, appunto, meritano un approfondimento a parte.

Come ha evidenziato il Cambridge Center for Alternative Finance nel suo report del 2018, l’attività di mining può essere qualificata come ad alta intensità energetica, poiché richiede un enorme sforzo computazionale, e dunque un notevole consumo energetico.

Inoltre, dal report del 2020 dello stesso ente emerge che per quanto concerne l’utilizzo di energie rinnovabili, sebbene il 76% dei miner dichiari di usarle per la propria attività, esse rappresentano solo il 39% delle fonti energetiche utilizzate complessivamente per l’attività di mining a livello globale.

L’attività della criptovaluta più diffusa, il Bitcoin, in base a stime del 2021 del Cambridge Bitcoin Electricty Consumption Index, ha prodotto oltre 56,8 milioni di tonnellate di Co2 e impiegato circa 105 TWh non molto distante dal consumo annuo dei Paesi Bassi, che è pari a 116 TWh. Inoltre una singola transazione Bitcoin utilizza circa 2.100 kWh paragonabile al consumo di 75 giorni di una famiglia media statunitense.

È per questa ragione che l’Unione Europea intende determinare un cambiamento nel mondo delle criptovalute portandolo a pratiche più ecologiche. Il primo passo in tal senso è rappresentato dalla proposta di regolamento Digital finance: Markets in Crypto-assets (Mica), che imporrà agli operatori del mercato delle cripto-attività di dichiarare le informazioni sulla loro impronta ambientale e climatica. È previsto, infatti, che l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (Esma) predisponga norme tecniche di regolamentazione sul contenuto, metodologie e presentazione delle informazioni relative ai principali effetti negativi sull’ambiente e sul clima.

Gli eurodeputati della sinistra hanno provato a intervenire inserendo all’interno del provvedimento dei parametri che avrebbero, nei fatti, escluso gradualmente le blockchain ad alta intensità di carbonio dal mercato, tuttavia, un simile intervento avrebbe solo potuto danneggiare l’innovazione e il mercato europeo delle criptovalute senza raggiungere l’obiettivo.

Creare un sistema coercitivo per le criptovalute all’interno dell’Ue non risolverà il problema finché i processi di mining continueranno al di fuori dell’Europa. A ogni modo, questo sistema prototipale di definizione di standard minimi di sostenibilità e conformità, potrebbe avviare un processo virtuoso replicabile anche negli altri mercati.

L’iniziativa nasce da crescenti apprensioni sull’impossibilità per l’Ue di vincere la battaglia contro il cambiamento climatico anche a causa dell’energia necessaria per alimentare i computer che gestiscono il processo di produzione delle criptovalute.

Preoccupazioni condivise anche dalla Casa Bianca che sul tema ha richiesto numerosi rapporti l’ultimo dei quali è arrivato lo scorso 8 settembre dal White House Office of Science and Technology Policy (Ostp) che ha pubblicato il report “Energy Implications of Crypto-Assets in the United States“ sull’impatto ambientale ed energetico delle criptovalute negli Stati Uniti.

Ebbene da tale report si legge che, sebbene i cripto-asset siano beni digitali che hanno una capitalizzazione di mercato globale complessiva di quasi 1.000 miliardi di dollari, alcune tecnologie di cripto-asset richiedono una notevole quantità di elettricità e ciò potrebbe causare ritardi o limiti al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità degli USA.

Per evitarlo, si legge nel rapporto, “la politica dei cripto-asset durante la transizione verso l’energia pulita dovrebbe essere incentrata su diversi obiettivi: ridurre le emissioni di gas serra, evitare operazioni che aumentino il costo dell’elettricità per i consumatori, evitare di il costo dell’elettricità per i consumatori, evitare operazioni che riducano l’affidabilità delle reti elettriche, ed evitare impatti negativi sull’equità, sulle comunità e sull’ambiente locale”

In fondo questo processo è possibile, il precedente già esiste, come dimostrato dal recente aggiornamento di Ethereum. L’abbandono graduale di protocolli dannosi per l’ambiente è realizzabile senza causare alcun danno al proprio business.

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