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Fusione nucleare, ecco tra quanto cambierà le nostre vite

fusione nucleare

L’annuncio ufficiale del Dipartimento dell’energia statunitense è arrivato, dopo le notizie riportate da Financial Times e Washington Post: per la prima volta, nel Lawrence Livermore National Laboratory negli Usa, l’uomo è riuscito a generare energia da fusione nucleare (replicando quindi il meccanismo che avviene nel Sole) con un bilancio energetico positivo. Cioè, è stata prodotta più energia da una reazione nucleare di quanta ne sia stata immessa nel sistema per innescarla.

Ma quanto ci vorrà ora per rivoluzionare davvero l’energia? Anche se si parla di decadi, la risposta non è mai stata così ottimistica.

Un risultato storico

“Questo è un risultato storico per i ricercatori e lo staff della National Ignition Facility che hanno dedicato le loro carriere a vedere l’innesco per fusione diventare realtà, e questo punto di svolta sprigionerà altre scoperte”, ha detto la Segretaria dell’Energia Usa Jennifer Granholm durante la conferenza di annuncio del risultato.

Riprodurre l’energia di una stella in laboratorio è un risultato epocale a livello scientifico, che ci avvicina a trovare una fonte di energia rivoluzionaria. Ma che non rappresenta ancora la risposta definitiva: siamo ancora lontani dall’avere un bilancio positivo “complessivo”, ricorda Paola Batistoni, Responsabile divisione sviluppo energia da fusione di Enea.

Il fatto che la strada sia ancora lunga non diminuisce, però, la portata del risultato ottenuto nella National Ignition Facility in cui si studia la fusione a confinamento inerziale utilizzando i laser. “È veramente molto importante, sono decenni che cerchiamo di conseguire un saldo positivo di energia tra quella immessa nel sistema e l’energia di fusione prodotta dal sistema. Dal punto divista della fisica e della scienza, è molto importante”.

Ma si parla comunque solo dell’energia immessa con i laser: “Se consideriamo il sistema complessivo siamo ancora lontani dal pareggio energetico effettivo”, dice Batistoni.

Se si va a vedere quanta energia è stata utilizzata per far funzionare i 192 laser ad alta energia dell’esperimento, dice l’esperta, il guadagno energetico complessivo è solo dell’1%. Come confermato anche durante la conferenza di annuncio dei risultati, sono serviti 300 megajouls di energia per avere l’energia necessaria per l’esperimento.

Insomma, i numeri dell’esperimento sono impressionanti (i laser hanno colpito la capsula da ‘riscaldare’ in meno tempo di quanto ne impiega la luce per percorrere 3 metri), ma per vedere risultati sui nostri sistemi energetici “c’è ancora molto da fare. Bisogna rendere positivo il bilancio complessivo”.

E in questa partita giocherà anche l’Europa, nonostante la tecnologia scelta dall’Ue sia diversa rispetto a quella utilizzata negli Usa, che con i laser ha scelto un “approccio al confinamento inerziale”, bombardando un piccolissimo bersaglio solido (come il seme di un peperoncino, hanno detto gli scienziati americani) di deuterio e trizio con i suoi fasci laser.

“Così si ottiene compressione e riscaldamento, e si raggiungono le condizioni per la fusione. Questo è un approccio non perseguito in Europa: noi abbiamo scelto la tecnologia del confinamento magnetico”, che rispetto a quella usata negli Stati Uniti “non ha le stesse implicazioni militari”, dice Batistoni.

Non è un caso se parlando dei risultati pratici più immediati della scoperta Usa, nella conferenza di annuncio del Dipartimento dell’Energia si sia parlato di risultati relativi alle armi nucleari e alla deterrenza: ora gli Usa sono più vicini a esperimenti per “programmi di difesa per continuare ad avere fiducia nei nostri deterrenti nucleari senza il bisogno dei vecchi test”, cioè di far esplodere le bombe, ha detto Marvin Adams, Deputy administrator for defense programs (nella foto in evidenza mentre mostra la capsula colpita dai laser dell’esperimento californiano) durante la conferenza. “Un altro passo per rispettare gli obiettivi di non proliferazione”.

I tempi per arrivare alla commercializzazione

Quando vedremo una ‘commercializzazione’ della scoperta americana? La risposta è necessariamente vaga, ma non è mai stata così ottimistica: secondo la dottoressa Kim Budil, direttrice del Lawrence Livermore National Laboratory dove è stato compiuto l’esperimento, dice che ci vorrà “un po’: ci sono molti problemi nella tecnologia, servono tanti eventi di fusione ogni minuto, serve un sistema di drivers per permetterlo”. La direttrice parla di “decadi. Non sei. Non cinque come dicevamo poco tempo: forse adesso siamo nel territorio delle 4 decadi”.

Il governo statunitense è più ottimista: secondo la Segretaria dell’energia Usa, Jennifer Granholm, parla dell’obiettivo del Presidente Joe Biden di avere un reattore a fusione nucleare in 10 anni, “e questo risultato mostra che si può fare”. Sarà fondamentale il settore privato: fino ad ora sulla fusione è stato utilizzato in gran parte “il denaro pubblico, ma i passi per arrivare alla commercializzazione serverà anche la ricerca privata”, ha detto il Segretario dell’Energia.

 

Due approcci diversi, un solo obiettivo

Un ottimismo (e una differenza di stime con la direttrice del Laboratorio) rimarcato dai giornalisti presenti, ma che la stessa Budil ha giustificato con il ruolo che avrà l’altro approccio alla fusione, il confinamento magnetico scelto dall’Europa (“avere più approcci ci aiuterà”), e il processo di industrializzazione e scalabilità della tecnologia, che è un incognita. “Con gli investimenti e il duro lavoro la timeline può accelerare, sicuramente non siamo mai stati più vicini”.

Il nostro continente non è a bocca asciutta, se si parla di risultati. Meno di una anno fa si è accesa la prima stella artificiale generata in laboratorio da un esperimento di fusione nucleare. Ed è stato fatto nel reattore sperimentale europeo Jet (Joint European Torus), in Gran Bretagna, che aveva prodotto una quantità di energia pari a 59 megajoule per cinque secondi: un periodo di tempo senza precedenti. E uno dei principali progetti mondiali sulla fusione nucleare è in costruzione proprio in Europa, in Francia: il progetto Iter. Il reattore sperimentale “entrerà in funzione verso la fine decennio ed è progettato per produrre il 1000% di energia rispetto a quella immessa, molta di più rispetto al progetto Usa”, racconta Batistoni.

“In Europa abbiamo seguito una strada diversa dai laser: il confinamento magnetico”, dice l’esperta dell’Enea. “Anche in questo caso non siamo ancora a un saldo netto di tutto l’impianto. Per farlo abbiamo ancora tanto sviluppo tecnologico da fare. Intorno a questi esperimenti che mostrano la fattibilità fisica occorrono anche le tecnologie che ci permettano di costruire un impianto di potenza che operi con continuità. Iter dovrà produrre 500 MW per decine di minuti, e questo con la tecnologia che abbiamo oggi non è possibile”.

Ci sono degli ostacoli in comune con l’approccio Usa, che raccontano come avanzare su entrambi i fronti possa aiutare a superarli. “Le sfide tecnologiche sono diverse, ma c’è qualcosa in comune come il problema dei materiali adeguati: si deve risolvere quello dell’autosufficienza del trizio, che non è naturale. Si produce dal litio in un ciclo chiuso all’interno del reattore, ed è un processo che va messo a punto”, dice la responsabile della ivisione sviluppo energia da fusione di Enea.

Anche le tecnologie come i laser “sono molto poco efficienti: il meccanismo di irraggiamento è poco efficiente”. Nel caso della fusione a confinamento magnetico “direi che gran parte delle tecnologie che servono sono già in Iter”, e l’esperimento del “Jet ci ha dato dimostrazione che possiamo raggiungere le condizioni di fusione e che sappiamo quello che manca”.

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