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Grandi dimissioni, il desiderio di appartenere ad una comunità di persone

lavoro ufficio
Gilead

Secondo un sondaggio condotto dal Pew Research Center, negli Stati Uniti ben il 41% delle persone che hannoun lavoro che può essere svolto a distanza, lavora in ogni caso alcuni giorni in ufficio. Un dato che si presenta in aumento rispetto al 35% che si andava a rilevare nel 2022. 

Le persone, attraverso il lavoro a distanza, hanno fatto loro i vantaggi di risparmiare diverse ore nella propria settimana nelle attività di spostamento verso l’ufficio. Tale risparmio potenzialmente può essere investito per due ritorni importanti:

  • È possibile dedicare tempo alla cura di sé. Con la pandemia si è alzata la sensibilità alla salute personale e cura di sé. È meno scontato il fatto di essere in salute e una nuova attenzione è data al proprio sistema immunitario e alle proprie energie. Temi come il riposo, la nutrizione e l’esercizio fisico hanno recuperato una rinnovata attenzione nelle persone. Il tempo di mancato spostamento può essere dedicato ad un maggior riposo, ad attività di esercizio fisico e alla possibilità di una nutrizione più attenta.
  • È possibile, inoltre, passare da quello che abbiamo definito work-life balance, ovvero separare e bilanciare tempi distinti fra lavoro e resto della vita, ad una maggiore work-life integration, ovvero una maggiore combinazione ed integrazione di impegni fra lavoro e resto della vita anche nella stessa giornata. Posso svolgere un compito di lavoro, a seguire portare un figlio a sport e guardarlo in queste sue attività, per poi ancora rientrare a casa e riprendere altre attività di lavoro.

Cambiano i criteri di valutazione del lavoro

Al tempo stesso le persone stanno scegliendo di tornare anche in ufficio. Perché? Non sempre questo è dettato da pressioni del management e policy aziendali.

Certo in alcuni casi questo sarà dato anche dalle condizioni di lavoro a casa. Non tutti hanno una disponibilità di spazio e di silenzio adeguato e magari ritrovano in ufficio una comodità di lavoro maggiore.

Ma nelle conversazioni manageriali sul rientro in ufficio c’è un tema che deve essere ripreso con maggiore attenzione: il desiderio di ciascuno di appartenere, vivere e costruire una comunità di persone.

Negli anni si è affermata una narrazione delle motivazioni umane al lavoro focalizzata sulla motivazione estrinseca – faccio le cose perché mi vengono richieste, e sapendo che avrò qualcosa in cambio, ma per qualcosa che non mi gratifica in sé – e su una motivazione intrinseca – faccio cose che mi gratificano in quanto mi procurano la soddisfazione del vivere in esser una mia passione, intrinseca in quella attività, e mi procurano una soddisfazione del mio personale progresso e crescita.

Questo ci ha portato a raccontare la persona al lavoro come una persona sostanzialmente interessata solo a ritorni personali. Una persona motivata solo da ricompense economiche o dalla possibilità di fare attività piacevoli in sé stesse.

Henry Mintzberg, in Beyond Selfishness, aveva posto il punto: a furia di raccontare le persone al lavoro come egoiste, abbiamo disegnato e realizzato organizzazioni basate su questo paradigma. E le profezie economiche sono spesso auto-avveranti (Bertolaso, 2021; Ferraro, Pfeffer, Sutton, 2005; Goshal 2005) 

Rimane il fatto che i sistemi di valutazione, incentivazione e riconoscimento sono stati fondati su questi criteri e le persone al lavoro hanno cominciato a credere fermamente in questi paradigmi.

Anche i criteri meritocratici si sono conformati ad una logica analoga: l’ossessione per l’obiettivo funzione della produttività economica, insieme alla logica della produttività come mezzo per una continua crescita economica, hanno portato alla totale sovrapposizione di valore e prezzo (Roncella e Bertolaso, 2021), che caratterizza gli attuali paradigmi meritocratici.

Ma che la persona possa essere egoista e che il valore specifico del lavoro sia solo quello che posso prezzare è solo parte della verità. Una mezza verità. E quindi è anche una mezza bugia.

Adam Grant, professore della Wharton, ha portato un grande contributo per aprire un fronte di attenzione su una dimensione dei bisogni umani e relative motivazioni fortemente sottovalutato.

Adam Grant ha incentrato una parte rilevante del suo lavoro sullo studio della motivazione pro-sociale: abbiamo il desiderio di procurare un bene ad altre persone e di contribuire a qualcosa di più grande a cui sentiamo di appartenere.

Questo ci ricorda che le persone sono reciprocamente legate, anche al lavoro e attraverso il lavoro.

Eppure, in parallelo, anche fuori delle imprese, viviamo una società di polarizzazioni, frammentata, separata.

Imprese e società con un crescente “distanziamento sociale”

Abbiamo parlato di distanziamento sociale anche quando era richiesto il solo distanziamento fisico. E la verità è che il distanziamento sociale c’era prima di questa necessità e permane ora che lo stato di crisi è stato superato.

Alcune delle cause che stanno alimentando queste separazioni:

  • Gli strumenti digitali ci facilitano la connessione con altre persone che non sono vicino a noi, che non sono fisicamente presenti nella stessa stanza. Questo ci porta a frammentare la nostra attenzione e ridurla verso coloro con cui potremmo essere in connessione con tutti i nostri sensi, perché appunto sono queste le persone compresenti nel tempo e nello spazio. Stiamo privilegiando la connessione con persone in altri spazi ed altri tempi. Ma è nella compresenza, nella piena e reale condivisione che stabiliamo relazioni. Ciò che è comune (internet, dati, piattaforme social, ecc.) non è necessariamente condiviso. La condivisione non riguarda infatti un accesso o una distribuzione ugualitaria, ma la possibilità di ciascuno di esserci e di dare un contributo specifico.
  • La assolutizzazione della velocità come valore, della efficienza e della produttività, ci ha portato ad enfatizzare la programmazione e il valore di piani ed agende in sé. Anche nella vita sociale ci incontriamo solo su appuntamento, riducendo sempre di più gli incontri casuali e la nostra frequentazione di quei luoghi che li permettevano: piazze, cortili, oratori, … I genitori prendono appuntamento settimane prima per fare incontrare i propri bambini e con un tale incastro di agende rispetto ad altri impegni che non si lascia spazio al tempo in più e all’imprevisto. Questo nel lavoro è ancora più enfatizzato, con meeting online che sono incontri sempre finalizzati, sempre orientati ad uno scambio, che lasciano da parte la casualità dell’incontro e il non atteso di una conversazione nata per caso.

Allora in una società frammentata, distanziante e separata, ogni soggetto sociale nella sua peculiarità specifica e con il suo modo concreto di relazionarsi, ha un ruolo strategico nella costruzione della società civile e del bene dei singoli e delle collettività.

Anche se le imprese, nella loro governance, non sempre hanno consapevolezza di avere questo ruolo strategico di luogo di connessione fra le persone, sono le stesse persone che glielo attribuiscono.

Alcuni dei motivi legati alle grandi dimissioni sono associati ai rapporti umani: difficoltà nei rapporti con i colleghi, senso di appartenenza e riconoscimento nei valori aziendali, possibilità di integrare il lavoro con il resto della vita.

Le persone cercano, anche nelle imprese, comunità di persone

Questi fattori ci dicono che le persone vogliono vivere l’impresa anche come una comunità di persone. Desiderano vivere relazioni generative e non solo di scambio con i propri colleghi, desiderano vivere un senso di appartenenza ad un organismo di cui condividono scopo, finalità, valori e più in generale cultura, e non solo un rapporto di dipendenza (tanto che, appunto, usiamo l’espressione dipendenti per rappresentarli).

Al paradigma dell’uomo sempre in azione, performante su vari fronti, onnipresente (Roncella e Bertolaso 2021) si sostituisce un paradigma di stabilità nella identità, pur nelle dinamicità dell’utilizzo degli strumenti per adempiere agli obiettivi professionali.

In altri termini, lo aveva ricordato già Mintzberg nel 2010, quando richiamava le imprese a ricostruirsi come comunità di persone, coniando il termine communityship (intesa come senso di comunità), da bilanciare alla forse in questo senso eccessiva attenzione alla leadership.

Allora in un contesto in cui le imprese vivranno sempre di più un workplace ibrido, dove le persone non si ritroveranno a condividere quanto prima spazi, tempi, a riconoscersi sotto gli stessi simboli e a ritrovarsi in incontri casuali, serve una nuova intenzionalità nel costruirsi e rinnovarsi come comunità di persone.

Alcuni dei fattori in gioco:

  • Serve alimentare stili di reciprocità pro-sociali. Occorre sostenere rapporti umani, anche al lavoro, non solo strumentali e funzionali. Si possono cioè promuovere attività che sostengano non solo lo scambio di servizi ma azioni di generosità, gratuità, volontarietà.
  • Serve che la comunità sia aperta. Una comunità di persone in quanto tale non è auto-referenziale, non è chiusa. Tiene conto della domanda che c’è fuori e non si sottrare ad impegnarsi per rispondere ad essa. Una impresa comunità di persone non crea, ad esempio, campus in cui la vita è tutta al di dentro con palestra, cinema e quant’altro. Accoglie la vita che c’è fuori ospitando le relazioni delle persone come figli, genitori, amici, e si impegna ad essere presente nel territorio in cui opera: ad esempio collaborando con scuole, associazioni, istituzioni…

Una delle possibili pratiche da coltivare: il service learning

Fra le diverse azioni che si possono disegnare e realizzare a sostegno di queste direttrici ne citiamo una: il “service learning”.

Il service learning è una combinazione del più diffuso (in particolare oltre oceano) volontariato aziendale, con i programmi di formazione e sviluppo. Persone e team vengono impegnati nel rispondere ad una sfida sociale o ambientale, e l’attività, opportunamente facilitata, viene rielaborata per i partecipanti nella chiave delle competenze praticate e sviluppate.

In questo senso, questa come altre iniziative, permette di praticare entrambe le direttrici:

  • Coltiva le competenze pro-sociali, sia mettendo in gioco le persone l’una verso l’altra che nel rispondere alla sfida “ESG” comune posta.
  • Rinnova il senso di responsabilità dell’impresa verso la comunità più ampia in cui opera, di cui è parte.

Diverse sono le ricerche che dimostrano quanto coltivare le competenze pro-sociali, ed i legami di reciprocità ed appartenenza, siano percorsi fondamentali per i fattori chiave di successo delle performance aziendali: produttività, innovazione, cooperazione, retention.

Ma noi riteniamo che alla base ci sia una consapevolezza più basilare: siamo nelle imprese non solo per funzionare, ma anche per con-vivere. Per vivere una vita piena anche nel lavoro, fatta di relazioni e non solo transazioni, di desiderio di appartenenza, e non solo di dipendenza. Abbiamo parlato abbastanza di leadership, per non parlare altrettanto di communityship.

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