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Avvale: la tecnologia al servizio delle aziende per garantire sostenibilità e profitto

Gilead

Conciliare sostenibilità e profitto è possibile. Grazie alle tecnologie digitali e all’economia circolare, un’unione felice tenuta insieme dalla ‘tecnologia bianca’. Ne è convinto Domenico Restuccia, Ceo della digital business transformation company Avvale.

Avvale è il volto più giovane di una storia iniziata quasi 20 anni fa. È il nuovo nome che si è scelta l’azienda italiana nata nel 2004 a Milano come Techedge, startup di servizi tech, diventata, grazie ad una crescita costante e stabile con tassi elevati anno su anno, una digital business transformation company operativa in 4 continenti.

Oggi Avvale, che ha chiuso il 2022 sfiorando i 300 milioni di ricavi, può contare su 20 uffici nel mondo e 3.000 advisor digitali a supporto di PMI e Fortune 500 che la scelgono per modernizzare le tecnologie di base, capitalizzare i dati e l’intelligenza artificiale, automatizzare i processi e le operazioni, creare servizi digitali a valore aggiunto, progettare esperienze capaci di trasformare il business moderno attraverso l’economia circolare e convertire idee in soluzioni attuabili.

Alla guida dell’azienda, che ha appena annunciato il rebranding ispirandosi a una visione che sinteticamente si può tradurre nell’assioma ‘tecnologie digitali + economia circolare = profitto sostenibile’, c’è il manager che l’ha creata, Domenico Restuccia, 52 anni, che si divide tra Milano, dove c’è l’headquarter della company, e la sede di Chicago, in Michigan Avenue, dove si è trasferito da dieci anni per seguire un cliente importante e, più in generale, il mercato americano.

Nato a Messina e cresciuto a Ivrea, dopo gli studi classici Restuccia completa a 23 anni il corso di laurea quinquennale in Ingegneria elettronica al Politecnico di Torino e poi vola nello Yorkshire, dove si specializza in sistemi di Telecomunicazioni presso l’Università di Leeds. Il suo primo incarico è in Olivetti, poi in Omnitel e poi ancora nella tedesca Realtech di cui diventa managing director Italia fino a quando, tra il 2003 e il 2004, fonda la sua creatura: Techedge.

Quale è stata la scintilla che le ha fatto decidere di mettersi in proprio?

Possiamo dire che sono diventato imprenditore perché ho avuto un’intuizione che andava oltre la realtà di quegli anni. L’azienda in cui lavoravo non ha trovato interessante la mia idea di creare una società che offrisse servizi per mettere in connessione le aziende tra loro, attraverso un ecosistema, creando una sorta di hub. Così, con i soldi che avevo da parte, ho fondato Techedge, partendo dall’integrazione dei clienti con i loro fornitori. È iniziato tutto da lì, dalla necessità di rendere più produttive ed efficienti le relazioni tra le aziende e il mondo esterno, in una fase in cui le informazioni scambiate erano sempre di più. I dati da processare erano sempre di più.

Vent’anni dopo può dire di aver realizzato la sua intuizione?

Sono abituato a spostare il confine di ciò che può dirsi un risultato raggiunto sempre due metri più in là. D’altronde la realtà che ci circonda evolve sempre più rapidamente. Ma certamente di cose utili e di cui essere fieri ne abbiamo fatte in questi quasi vent’anni. E mi aspetto di farne ancora tante.

Perché cambiare nome?

Le nostre competenze si sono evolute e si sono moltiplicate nel tempo. E ci siamo posti una nuova sfida: fare in modo che la tecnologia possa servire a ridurre gli scarti delle grandi aziende, che è un tema centrale perché si porta dietro il come si fa a risparmiare energia e rendere tutto più sostenibile. Senza dimenticare il profitto, altrimenti nessuno perseguirebbe questo fine.

La tecnologia è una leva che l’uomo deve utilizzare avvalendosi del proprio ingegno e, per quanto ci riguarda, è lo strumento principe che ci consente di evolvere mantenendo le radici profondamente piantate nel nostro passato e servire i nostri clienti anticipando i bisogni e le sfide che la circolarità porrà e sta già ponendo loro.

Qual è la sfida?

Percepiamo l’urgenza di innovare profondamente la catena del valore di prodotti e servizi, allineando la crescita economica a un futuro sostenibile. E questo obiettivo può essere raggiunto solamente avvalendosi delle giuste tecnologie e moltiplicandone l’impatto attraverso l’ingegno umano.

Oggi poniamo con forza una questione imprescindibile candidandoci a gestirla: l’adozione di modelli più responsabili e circolari spingerà le aziende a costruire e privilegiare relazioni a lungo termine con tutti i propri stakeholder rispetto a semplici transazioni puntuali di acquisto/vendita: con i fornitori con cui condividere il ciclo di vita dei materiali e far sì che l’intera supply chain sia sostenibile, con i clienti con cui gestire relazioni più continuative e servizi a valore aggiunto e così via.

Questi cambiamenti comportano la necessità di una maggior integrazione di processo con tutti i nodi del proprio ecosistema di business forzando interazioni digitali estese, ma altamente flessibili, come unico modo per le imprese di essere sì sostenibili e di successo ma anche efficienti e redditizie.

Che cosa significa Avvale?

Il nuovo nome è poliedrico: ricorda il valore aggiunto, la forza, la competenza. Si richiama alla radice latina del verbo vălĕo, che significa avere forza, stare bene, essere capaci di. In tutti i Paesi in cui operiamo esiste l’espressione “avvalersi di”. Ci consente di porci come abilitatori del cambiamento, come i professionisti che sanno rispondere a ciò che abbiamo anticipato prima: avvalendoci della tecnologia possiamo aiutare le aziende e le loro filiere a vincere la sfida della sostenibilità perché abbiamo le competenze per farlo. Senza dimenticare che non può esistere circolarità se non esiste crescita economica.

Che intende?

Le criticità climatiche, energetiche, geopolitiche e sociali indicano la necessità di superare lo schema di sviluppo lineare estrarre-produrre-utilizzare-gettare a favore di modelli che su scala industriale possono essere abilitati solamente da processi ad elevatissima automazione e da prodotti sempre più intelligenti e connessi: sto parlando di modelli di sviluppo più responsabili e circolari.

Per abilitare questa trasformazione serve la tecnologia. Diversamente non potremmo nemmeno pensare di essere in grado di piegare la tradizionale catena del valore lineare basata sul consumo, a favore di ecosistemi circolari, più efficienti e collaborativi, dove prodotti e materiali circolano al loro massimo valore, quanto più a lungo possibile, generando impatti positivi e crescita economica.

Le tecnologie digitali e l’economia circolare sono i due mezzi più potenti che le aziende hanno a disposizione per centrare l’obiettivo e conciliare sostenibilità e profitto.

 

Dunque, la tecnologia salverà il mondo? O sarà l’uomo a salvarlo?

Sicuramente l’innovazione scientifica rende la tecnologia sempre più efficiente. Ad esempio, è evidente che l’AI, o intelligenza artificiale che dir si voglia, è più efficiente del cervello biologico. Non da un punto di vista energetico certo, o almeno non ancora, ma sicuramente può imparare lo scibile formalizzato assai velocemente e passarlo ad altre AI istantaneamente. Basta questa semplice considerazione per aprire la porta alla possibilità che si verifichino scenari distopici.

Tuttavia, ho grande fiducia nella capacità dell’uomo di farsi le domande giuste e trovare soluzioni sempre migliori, attraverso il proprio ingegno, per salvaguardare questo nostro pianeta. Sarà che sono ottimista per natura ma sì, sono convinto che la “tecnologia bianca”, quella che, come Avvale, utilizziamo per realizzare il connubio circolarità e profittabilità, è destinata a trionfare proprio grazie alla mediazione dell’intelletto umano e del suo spirito critico. E quando guardo avanti, immagino un pianeta non solo sostenibile ma dove ancora esistono aziende profittevoli e uomini liberi.

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