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Paola Dubini (Bocconi): la cultura è trascurata. Ha bisogno di teste. E di fondi.

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 Per aumentare la possibilità di ritorno economico attorno al nostro patrimonio artistico è necessario che si crei un ecosistema che per primo veda la possibilità di valore. Ce lo ha spiegato Paola Dubini, dell’Università Bocconi di Milano

A Roma c’è un castello. Anzi, molti di più. Non sono quelli delle fiabe, con alte torri che nascondono principesse bellissime o draghi spaventosi. Stanze incantate in cui il magico prevale sul reale. Sono edifici costruiti dagli uomini per gli uomini, mattoni che custodiscono pezzi di storia. “A Roma come in ogni parte del mondo”, dice con la voce di chi una favola la sta raccontando Paola Dubini, professoressa di management all’Università Bocconi di Milano. Economista, autrice e public speaker. Quando parla, Dubini lascia immaginare le cose che descrive. Fa appassionare. Nel 2018 ha pubblicato un libro: “Con la cultura non si mangia”. Sottotitolo: “FALSO!”, scritto in stampatello maiuscolo e con il punto esclamativo. Come un grido. Contro chi la cultura la ostenta, ma non sa valorizzarla.

Crede che oggi nel nostro Paese la cultura riceva poche attenzioni da parte sia del pubblico che delle istituzioni?

La cultura è trascurata. Basta camminare per le strade delle nostre città. C’è tanta bellezza che non viene mantenuta. Dovrebbe funzionare come per gli atleti che allenano il loro corpo: per avere muscoli scolpiti e migliorare le prestazioni occorre sacrificio. Il mio ‘grido’ nel libro è lo sforzo di chi cerca di aumentare l’attenzione al significato di valore che attribuiamo alla cultura. Questo è l’unico modo per sostenere le organizzazioni che la cultura la fanno. Detta diversamente: la cultura non si fa da sola. Ha bisogno di teste. E di fondi.

Già, fondi. Lei è anche economista. Quali sono le ricadute economiche del settore culturale in Italia?

In Italia 1,5 milioni di persone lavorano nel settore culturale. È il 5,8% degli occupati. Le ricadute strettamente economiche hanno a che fare proprio con le possibilità occupazionali. Gli ambiti della cultura sono ad alta intensità di lavoro professionalizzato, e spesso chi lavora in ambito culturale è anche qualcuno che la cultura la consuma. Cioè qualcuno che contribuisce ad alimentare una ricchezza. L’altro modo per guardare al valore economico della cultura è riconoscere che esiste una componente immateriale forte. Il vantaggio di una dimensione immateriale di valore è che non ci sono vincoli di produzione e quindi quel valore dura nel tempo. Il settore della moda, ad esempio, ha nella componente immateriale del fascino, della reputazione, del marchio, una possibilità incredibile di creazione di valore. Dopodiché non va dimenticato che le ricadute economiche sono spesso legate a specifiche professionalità. Il mondo dei materiali, del restauro, sono tutte filiere alimentate dalla presenza di molto patrimonio culturale. Poi, l’altra relazione fondamentale, la più evidente, è quella fra cultura e turismo. I territori sono occasione di attrazione, e quanto è più possibile riconoscere la differenziazione territoriale tanto più il valore economico di un certo luogo cresce. Questo però si porta dietro una serie di problemi. E di domande.

Cioè?

A noi quanti turisti servono? Perché è indubbio che il turismo attiri ricchezza economica, ma la possibilità che un luogo mantenga il suo fascino e venga protetto richiede particolari piani d’azione. Nessun luogo può contenere tutto e tutti. Si pensi a città come Venezia, patrimonio mondiale dell’umanità. Le persone che visitano Venezia lo fanno in giornata. I turisti in ventiquattro ore spendono pochi euro nei ristoranti o negozi locali prima di ripartire, sovraffollando la città ma contribuendo poco alla sua crescita economica. Esiste una responsabilità collettiva di valorizzazione, che deve partire soprattutto dall’interno. Per parafrasare una famosa massima sulla moda: i turisti passano. I residenti restano.

Quindi oltre che valorizzare il nostro patrimonio artistico al di fuori del Paese, dovremmo investire non solo nel turismo interno ma nella consapevolezza di chi le vive, le città?

Esatto. Come in tutte le cose, il fatto che si possa estrarre o generare valore presuppone che ci sia qualcuno che lo riconosca. Se sottolineiamo eccessivamente l’importanza del nostro patrimonio come attrattore turistico e non consideriamo che in realtà i primi turisti sono i residenti è difficile che questi si attivino per tirare fuori il massimo da questa risorsa. Per aumentare le possibilità di ritorno economico attorno all’arte, è necessario che si crei un ecosistema che per primo vede la possibilità di valore. È un po’ come il tema della protezione della natura. Le popolazioni che vivono nell’Amazzonia, tra le montagne, nei villaggi sperduti hanno un rapporto con la natura che è di sfruttamento perché devono campare, ma è uno sfruttamento attento perché si rendono conto che parte dell’estrazione di valore è resa possibile solo grazie alla conservazione. È questo il meccanismo importante che va preservato. Altrimenti continueremo a considerare i monumenti di Roma come l’equivalente di Disneyland e ci preoccuperemo che abbiano valore per qualcuno che viene dall’altra parte del mondo. C’è una relazione importante tra produzione, consumo e partecipazione culturale. Occorre consapevolezza. La verità è che senza cultura si vive tranquillamente, rispetto ad altri consumi. Si vive peggio, ma questo è un mio parere. La cultura non soddisfa solo un bisogno di bellezza: fa compagnia, diverte, provoca, protesta. Forse bisognerebbe ripensare al sistema scolastico. Se da piccolo cominci a masticare la cultura è più probabile che poi faccia parte della tua dieta. D’altro canto, occorrerebbe anche capire che non si possono piegare le generazioni. La cultura evolve. Il motivo per cui a un ragazzo può piacere andare in luogo, visitare un monumento, è diverso da quello per cui lo sceglierei io. Magari a lui fa pensare a un videogioco, a me a un film vecchio visto tanti anni fa. Certo, c’è una specie di tendenza all’esterofilia maggiore rispetto a un po’ di anni fa. Ma ogni generazione ha i suoi eroi e le sue forme espressive tipiche. E la passione non è mai una colpa.

A proposito di colpe. In tema cultura, ha fatto scalpore la preside licenziata in una scuola media in Florida per aver mostrato l’immagine del David come Michelangelo lo ha fatto: nudo. In Italia, Hope Carrasquilla, questo il nome della donna, potrebbe addirittura ricevere un riconoscimento. È un’iniziativa a cui sta lavorando il sindaco di Firenze Dario Nardella. Che opinione si è fatta della vicenda?

(Ride, ndr). Mi fa sorridere. Un po’ come quando Facebook oscura i quadri in cui ci sono donne nude. Noi siamo in grado di fare una distinzione tra arte e pornografia, almeno per quanto riguarda le opere del passato. Però mi permetto di far notare che se si passeggia per il centro di Firenze e si guardano i souvenir in esposizione, del David non sono messi in risalto i riccioli o le vene sui polsi. Si ostenta? Può darsi. Però ecco: i fiorentini sono residenti che la cultura sanno come esaltarla.

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