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Imprese familiari tra rischi e opportunità

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Il passaggio generazionale è da sempre uno snodo critico per ogni impresa familiare. Ultimamente lo sta diventando anche per tutti noi: i dati Istat e dell’Osservatorio Aub (Aidaf, Unicredit, Bocconi) testimoniano infatti che l’incidenza delle imprese familiari nella nostra economia è superiore a quella degli altri Paesi europei e che molte di esse – e, soprattutto, gran parte di quelle più importanti – sono gestite da imprenditori della generazione dei baby boomers o addirittura dai loro genitori, vale a dire le generazioni del miracolo economico italiano.

L’anzianità dei gestori delle nostre imprese familiari è aggravata dall’arretratezza del nostro modello economico-produttivo, da cui dipende la bassa produttività del nostro lavoro rispetto a quella dei Paesi più avanzati, nonostante i costi più bassi.

A rendere la situazione ancora più critica vi è poi un’ulteriore componente che si sovrappone al tema del passaggio generazionale e attiene al passaggio dimensionale. Proprio da quest’ultimo conviene partire.

La dimensione delle imprese di famiglia è definita da due grandezze: quella dell’impresa e quella della famiglia. Quando anche una sola di queste due grandezze è contenuta, anche il passaggio generazionale appare relativamente agevole. In altri termini: il passaggio della gestione di una grande impresa a un solo discendente o di una piccola impresa a più discendenti non appare problematico, poiché l’esito del primo è nei fatti, mentre quello del secondo è indifferente (qui non s’intende, sia chiaro, sminuire l’importanza delle piccole imprese, ma solo constatarne la fisiologica ‘distruzione creativa’ anche a prescindere dai passaggi generazionali).

Nel nostro Paese le imprese familiari di grandi dimensioni non sono molte, il che potrebbe indurci a ritenere che il problema del passaggio generazionale sia sopravvalutato. In realtà ci si dovrebbe chiedere perché le grandi imprese familiari sono così poche, e poi perché, anche quando sono grandi, si è storicamente privilegiato il passaggio della gestione a ‘un uomo solo al comando’.

Le ragioni del tendenziale ‘nanismo’ delle imprese italiane sono diverse, ma a nostro avviso dipendono essenzialmente da due circostanze.

La prima è un quadro politico, normativo e giurisprudenziale poco attento – quando non apertamente ostile – alle grandi imprese. Non solo perché le piccole imprese godono di benefici specifici – da un accesso più flessibile al mercato del lavoro, a una tassazione agevolata a regole più semplici – ma anche perché la narrazione politica e sociale (non solo di sinistra, ma anche di destra) ha delineato un’immagine pittoresca, al limite della caricatura, della spregiudicatezza e dell’egoismo delle grandi imprese. Il quadro è completato da una giurisprudenza modellata sull’esperienza delle piccole imprese, che spesso manca di cogliere (e perciò di tenere adeguatamente in conto) la complessità di quelle più grandi.

Così la crescita delle imprese si è storicamente confrontata con regole più rigide, talvolta persino vessatorie, con episodi di avversione politica e sociale, con sentenze civili e penali fondate sui famigerati teoremi del ‘non poteva non sapere’ o del post hoc ergo propter hoc, e così via. Il modello della grande impresa familiare, anche quotata, ha elementi di unicità che la distanziano tanto dalla public company quanto dalla Pmi: il fatto che il nostro sistema di regole – tanto sostanziali quanto procedurali – non abbia ancora imparato a valorizzare adeguatamente tali peculiarità dovrebbe essere in cima ai pensieri dei policy maker.

La seconda circostanza da menzionare è un modello di generazione di nuove imprese di stampo prevalentemente ‘vernacolare’, vale a dire innestato su esperienze artigianali e locali. Non intendiamo dare alcuna connotazione snobistica a questa considerazione, sia chiaro, ma non si può non constatare come gran parte delle nostre imprese di successo provenga da queste esperienze, da cui peraltro dipende la reputazione del Made in Italy, il genius loci e la varietà dei nostri prodotti. Tuttavia, il suo risvolto negativo è una maggiore propensione a una crescita organica e lenta a discapito di una crescita per linee esterne e veloce, un mercato dei capitali di rischio sottodimensionato e la scarsità di imprese provenienti dai settori più innovativi, che sono quelle cresciute più velocemente negli ultimi decenni.

Spesso si sente dire che la creatività e le capacità imprenditoriali degli italiani sono superiori a quelle dei tedeschi e degli americani. Più raramente, però, le si considera anche come l’effetto, seppur positivo, di un sistema in realtà disfunzionale e di un modello economico arretrato. Forse sarebbe importante iniziare a farlo, oltre che decantare le (meritate) lodi dei nostri imprenditori.

Il passaggio dimensionale dovrebbe dunque diventare un obiettivo prioritario sia delle imprese familiari sia dei policy maker, anche sfruttando l’irripetibile ‘finestra’ di passaggi generazionali che in questi anni si presenta a molte imprese familiari che costituiscono l’ossatura del nostro sistema economico.

Passando alla seconda domanda, la ragione per cui in molte imprese familiari si è visto prediligere il passaggio a “un uomo solo al comando” dovrebbe essere scomposta in due parti.

La prima, sul perché la parola ‘uomo’ non si sia quasi mai espressa concretamente, come avrebbe dovuto, nel suo significato metonimico, vale a dire perché si è quasi sempre visto prediligere il passaggio dell’impresa a un figlio maschio. L’ovvio sospetto è che ciò possa in larga parte dipendere da una cultura (familiare prima ancora che a livello d’impresa) di stampo patriarcale e maschilista, che per fortuna sta scomparendo. Di sicuro, questa è la spia di un più ampio problema che attiene alla concreta difficoltà di selezionare i più capaci e i più meritevoli all’interno di compagini familiari spesso numerose (e tanto più nel passaggio dalla seconda alla terza generazione), all’interno delle quali l’interesse per l’impresa comune e il talento necessari a gestirla sono risorse scarse e non necessariamente distribuite in misura pari alle quote proprietarie.

Il che porta ad affrontare la seconda domanda, sul perché si sia privilegiato il passaggio a una gestione monocratica – anche a rischio di affidarsi alla persona in realtà sbagliata in mancanza di un adeguato meccanismo di selezione – rispetto a una gestione collegiale o ripartita fra più discendenti.

Nella realtà, non è raro imbattersi in imprese paralizzate, o comunque rallentate, da situazioni di stallo degli organi decisionali a cui partecipano i familiari, ciascuno con il proprio carico di incomprensioni e gelosie nei confronti degli altri, con il risultato troppo spesso di privilegiare lo status quo alla crescita, sacrificando la capacità progettuale dell’impresa a tutela di una malintesa uguaglianza.

Il passaggio a una gestione collegiale è dunque più frequente di quanto sembri, ma non è detto che ciò sia un bene. In base all’esperienza, stabilire a priori se funzioni meglio un modello di gestione accentrata, collegiale o ripartita fra più familiari non è agevole, e forse nemmeno possibile. Si tratta di una domanda la cui risposta dipende da diversi fattori, in aggiunta a quelli enumerati in questo breve spazio, anche molto contingenti: primo fra tutti, l’imprinting familiare, ossia il modello di valori posto alla base dei rapporti fra parenti e fra generazioni (ritenendo che la consanguineità da sola difficilmente possa costituire un collante sufficiente), della scelta dei percorsi individuali di crescita (innanzitutto con riguardo agli studi e all’esperienza lavorativa), nonché, di riflesso, del legame esistente con l’impresa (a partire dal modo di intenderne la proprietà e definirne la continuazione).

La domanda, dunque, non può che restare aperta. In ogni caso, però, sembra inevitabile il passaggio a una diversa cultura gestionale, soprattutto in relazione al rapporto con il management. Uno dei mantra dei consulenti è che l’internazionalizzazione e la managerializzazione impongano ai familiari il passaggio dal ruolo di imprenditore a quello di socio: se ciò non è necessariamente vero, è indubbio che l’epoca delle gestioni padronali ha fatto il suo tempo, specialmente nelle imprese in cui occorre attrarre talenti e competenze dall’esterno.

Fra i mantra dei consulenti rientrano anche le regole che alcune famiglie decidono di darsi in relazione al passaggio generazionale e alla gestione dell’impresa, spesso contenute in accordi chiamati impropriamente ‘patti di famiglia’, la cui efficacia vincolante è in realtà tutta da verificare. In altri casi, o in aggiunta a questi accordi, si ricorre più efficacemente – ancorché meno ‘sentimentalmente’ – alle regole dello statuto dell’impresa. Così è frequente che i cosiddetti patti di famiglia recepiscano i ‘valori’ dell’impresa e, tuttalpiù, i requisiti per accedervi (titolo di studio, lavoro in altre imprese, e così via) mentre gli statuti contengano poi le vere e proprie regole sulla governance e sul passaggio delle partecipazioni, di cui si potrebbe anche disporre anticipatamente in deroga alle regole successorie attraverso la stipula di un vero patto di famiglia, vale a dire quello disciplinato specificamente dagli artt. 768bis-768octies del codice civile.

Tutto questo porta a trarre una fondamentale conclusione, ossia che il passaggio generazionale e le regole dell’impresa familiare devono essere impostati con ampio anticipo, non soltanto per trovarsi preparati al verificarsi di eventi imprevedibili, quali la morte o l’invalidità, ma, ancora prima, come espressione di un lascito – oggi si direbbe una legacy – a tutela tanto della famiglia quanto dell’impresa. Il che suggerisce, tra l’altro, lo sforzo di anticipare il passaggio di alcune consegne prima che i figli diventino troppo anziani per maturare l’esperienza e avere l’energia necessarie per proseguire nella gestione dell’impresa.

*Partner di Bonelli-Erede, specializzato in diritto societario

**Senior counsel di Bonelli-Erede specializzato in corporate governance

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