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Aziende di famiglia italiane: successo, governance e impatto sociale

Le aziende di famiglia rappresentano l’ossatura portante del tessuto imprenditoriale italiano. Nel Belpaese circa otto imprese su dieci sono nate proprio dall’idea di industriali, spesso visionari e lungimiranti come solo gli imprenditori sanno essere, che hanno creato imperi piccoli o grandi dove hanno trovato occupazione molti se non tutti i membri della propria famiglia. Ne sono un esempio, Bracco, Chiesi, Ferrero, Barilla, Illy Caffè, solo per citare alcuni esempi afferenti al settore farmaceutico e all’alimentare.

In molte di queste realtà il tempo non è un confine preso in considerazione: le generazioni che si succedono creano una sorta di dinastia che vede i membri della famiglia avvicendarsi via via al comando dell’impresa. Naturalmente apportando ciascuno nuova linfa vitale all’albero, rendendo l’azienda contemporanea, mettendola al passo coi tempi, con le nuove tecnologie e le nuove tendenze. Assecondando talvolta i dettami del mercato. Altre volte tenendoli in considerazione quel tanto che basta, tenendo la barra dritta e seguendo la filosofia del fondatore che spesso permea nel tempo i diversi rami delle genealogie.

Anche nel resto d’Europa sono le aziende di famiglia a farla da padrona nel panorama industriale, anche se in alcuni casi con penetrazione inferiore. Nel Vecchio Continente in media sono ‘family business’ sei realtà imprenditoriali su dieci.

Family governance in cerca di strutturazione

Ma come vengono gestite queste corporation, che non infrequentemente rappresentano dei veri e propri colossi nel comparto merceologico di riferimento?

Secondo la ricerca “Family governance in Europe: trends and insights” condotta da Bnp Paribas Wealth management e Sda Bocconi, impatto sociale, trasformazione digitale ed educazione alla proprietà responsabile sono i principali elementi che caratterizzano i modelli del business delle aziende di famiglia. Che, messe insieme, generano circa il 50% del Prodotto interno lordo (Pil) europeo, e tra il 40 e il 50% dell’occupazione del settore privato.

Le aspettative che aleggiano nei board delle aziende familiari sono molto alte. Spesso si dà per scontato che le nuove generazioni faranno parte dell’impresa. Per questo il fondatore o il manager più senior della famiglia avvicina i giovani virgulti ai valori aziendali sin dalla tenera età. Consapevole che con una formazione accademica di primo livello essi saranno timonieri del domani dalle eccezionali performance. Eppure, dice la ricerca, solo il 37% delle famiglie possiede un piano di successione solido, documentato e ben comunicato. Al contrario la governance familiare si realizza spesso in modo informale. E per il 44% degli intervistati le riunioni di famiglia rappresentano ancora il momento clou per creare legami, trasferire valori condivisi e filosofie.

Un altro dato che permette di comprendere quanto questo modo di fare governance sia radicato in Italia e in Europa è dato dalla presenza, o meno, del Consiglio di amministrazione: mentre esso è istituito nel 59% delle imprese di famiglia mondiali, in Europa questa percentuale è circa la metà.

Stante che le famiglie imprenditoriali di successo di solito creano meccanismi di governance particolari influenzati dai valori della famiglia, dal tipo di business e dalla fase di sviluppo aziendale, vien da chiedersi quali sono questi meccanismi e quali plus e limiti li caratterizzano. Commenta a Fortune Italia Alessandro Minichilli Ordinario presso il dipartimento di Management e Tecnologia dell’Università Bocconi: “Le famiglie imprenditoriali che comprendono l’importanza di lavorare sulla family governance lo fanno a partire dai valori della famiglia, da come questa concepisce il rapporto con l’impresa, nonché dalla visione di lungo termine rispetto al business. Non esistono modelli standard di family governance; al contrario, ciascuna famiglia lavora per arrivare al proprio ‘assetto’ di valori e regole più aderente al proprio Dna. Tuttavia, esistono diversi strumenti e meccanismi che combinati tra loro contribuiscono a definire tale assetto. Questi sono la family constitution, un insieme di regole e valori che definiscono il ‘purpose’ della famiglia e dell’impresa, e come trasmetterlo nel tempo, secondo quali principi.

Nella constitution la famiglia può accogliere accordi informali, quali ad esempio le regole di ingresso dei familiari in azienda, nonché regole formali – normalmente disciplinate attraverso patti parasociali – quali ad esempio politiche dei dividendi o limiti particolari alla circolazione delle azioni. Questi stessi aspetti possono essere disciplinati nello statuto aziendale che, se ben utilizzato, può plasmare in maniera molto flessibile la family governance fornendo soluzioni concrete nel gestire il rapporto famiglia-impresa. Chiaramente la constitution richiede spesso una certa maturità della famiglia, ed una certa dimensione aziendale o fase di sviluppo generazionale: difficilmente imprenditori di prima generazione si affidano ad uno strumento di questo tipo, relativamente complesso. Ma comunque, anche per questi imprenditori in aziende più “giovani”, una opportuna combinazione di uno Statuto ben disegnato, di alcune regole familiari, e di eventuali patti parasociali appare quanto mai necessaria per garantire la continuità”.

Impact investing come leva competitiva 

Un’altra caratteristica delle imprese familiari è la tendenza a voler far permeare i valori sociali del proprio modo di fare impresa anche sul tessuto sociale che li circonda. Si tratta di un trend che spesso è insito nella filosofia aziendale sin dai tempi del suo fondatore. Una tendenza che resta salda nell’impresa, magari cambiando il modo in cui essa si manifesta al mutare delle generazioni. 

‘Impact investing’ lo chiamano gli addetti ai lavori. Che sempre più spesso può diventare una vera e propria leva competitiva per le aziende di famiglia. Come spiega Luca Bonansea, Head Bnl Bnp Paribas Private Banking & Wealth Management: Il tema è cruciale perché consente alle aziende di famiglia di poter cambiare prospettiva, allargando il campo d’azione spostandosi da un modello classico filantropico ad uno evoluto ad impatto. Mi spiego meglio. Come si evince dalla recente letteratura sul tema, gli investimenti ad impatto si differenziano da quelli tradizionali per tre caratteristiche principali: l’intenzionalità, la misurabilità e l’addizionalità. L’impact investing può riguardare varie classi di attività e si colloca in una posizione intermedia tra l’investimento tradizionale e la filantropia. Rispetto agli investimenti tradizionali, nell’impact investing sono presenti anche gli obiettivi di generare un impatto sociale e ambientale positivo e misurabile.

Il fatto di poter combinare il rendimento finanziario alla creazione di un impatto  può essere positivo per le aziende, e anche per quelle familiari, poiché consente loro di poter attrarre  capitali da potenziali investitori ormai sempre più attenti a indirizzare i loro investimenti verso realtà sostenibili. Inoltre, anche in tema di finanziamenti, potersi accreditare come realtà aziendali che effettuano investimenti ad impatto può consentire maggiori facilitazioni/agevolazioni nell’accesso al credito. Occorre anche evidenziare un aspetto importante connesso alla reputazione aziendale e alla visibilità dell’azienda. Infine, l’impact investing  genera come ulteriore effetto un meccanismo di win-win per la collettività intera con la possibilità di sviluppare un’economia maggiormente inclusiva e positiva”.

Insomma i business model familiari pare non possano fare a meno di mostrare il proprio lato sociale. 

Come un tempo gli imprenditori di famiglia tenevano molto a che la propria immagine fosse legata al progresso economico foriero di un benessere che travalicava i muri di cinta dell’azienda e portava i suoi benefici effetti nella città su cui insisteva, i businessman familiari del secondo millennio sono molto legati a concetti che oggi chiamiamo responsabilità sociale di impresa.  

E sempre più spesso negli ultimi anni desiderano che il proprio modo di fare impresa ‘sociale’ sia certificato – come Società benefit e Bcorp – così che diventi un biglietto da visita capace di attrarre nuovo business in virtù dell’eticità con cui si lavora. 

Si badi bene, nulla a che fare con il green washing che talune multinazionali talvolta mettono in campo con il rischio di diventare sepolcri imbiancati che diventano veri e propri boomerang mediatici. Chiosa il professore della Bocconi: “Il legame tra family governance e responsabilità sociale d’impresa, o meglio politiche di sostenibilità secondo le ultime declinazioni, è certamente forte se non decisivo. La governance è unanimemente riconosciuta come il motore della sostenibilità, anche a livello formale. E, in un’impresa con una famiglia al controllo, è naturalmente la proprietà a guidare l’impronta Esg (Enviromental, Social and corporate Governance) dell’impresa. Diverse ricerche dimostrano ad esempio una correlazione tra generazione al comando e probabilità di adottare una strategia Esg: una ricerca di SDA Bocconi dimostra che le seconde generazioni e successive perseguono strategie di sostenibilità una volta e mezza in più rispetto ai fondatori. Rispetto alle aziende non familiari ci sono differenze soprattutto in termini di ‘reattività’: nelle ‘corporation’ non familiari, infatti, i driver di azione della sostenibilità sono solitamente la normativa (per le aziende più grandi), o ragioni di business (per aziende più piccole nella filiera in conseguenza della strategia delle aziende più grandi). Nelle aziende familiari invece la spinta può venire dalla famiglia o dall’imprenditore anche a prescindere da questi aspetti. Gli esempi sono moltissimi, per cui qualsiasi lista non sarebbe esaustiva, ma ricordo come Illy Caffè sia stata una tra le “firstmover” come società benefit prima, Bcorp poi, e anche nella reportistica in termini di bilancio di sostenibilità”.

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