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Atlante Geopolitico: l’impegno internazionale per il Corno d’Africa, ponte tra Oriente e Occidente.

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Il mondo intero si trova in un periodo straordinariamente difficile, e il conflitto in Medio Oriente getta un’ombra minacciosa sul futuro degli equilibri globali. Ogni giorno, il numero di vittime aumenta in modo preoccupante, e in tali circostanze, è fondamentale non perdere di vista il nostro senso di umanità. La tragicità della situazione nella piccola Striscia di Gaza richiama giustamente l’attenzione del dibattito pubblico, ma è essenziale ricordare che esistono anche altre crisi altrettanto gravi, ma meno visibili, che continuano a mietere milioni di vittime anno dopo anno.

Il conflitto in Medio Oriente rappresenta solo uno dei numerosi esempi di situazioni di guerra e sofferenza umana su scala globale. Per affrontare adeguatamente le sfide che il mondo sta attualmente affrontando, dobbiamo mantenere una visione ampia e complessiva di queste crisi. La compassione e la solidarietà dovrebbero estendersi a tutte le vittime di tali situazioni drammatiche, ovunque si trovino.

Pensate che in una regione orientale del Continente africano quattro milioni di persone necessitano assistenza umanitaria e 20 milioni sono a rischio di insicurezza alimentare. 20 milioni non sono pochi, affatto, anzi sono una quantità abnorme in una regione che, ironia della sorte, è stata a lungo governata dagli italiani. Situata in una posizione geografica altamente strategica, ponte tra oceano indiano e mar rosso, tra Africa e Asia, Oriente e Occidente e in cui transitano la maggior parte delle rotte commerciali mondiali verso l’Europa, tale regione è il Corno d’Africa.

Teatro di instabilità cocenti, arena di conflitti sempiterni, al suo interno le ex colonie italiane, l’Eritrea, l’Etiopia, la disgraziata Somalia e l’antico possedimento francese, il Gibuti. Il Corno d’Africa, nonostante la povertà dilagante, è anche una delle regioni più colpite dal cambiamento climatico. Un paradosso, uno strano scherzo del destino dal momento che solo in Somalia, dal 1960 ad oggi, si è inquinato complessivamente come negli ultimi due giorni e mezzo negli Stati Uniti. Un fardello che i paesi più poveri al mondo devono sopportare nonostante abbiano contribuito ad emettere un centesimo dell’Occidente. In Somalia, ad oggi, 1,2 milioni di persone sono costrette ad abbandonare le loro case e ben 3,7 milioni sono internamente dislocate. Le altissime temperature della zona fanno evaporare l’acqua dal terreno e dalle piante. Tale fenomeno, se ripetuto nel tempo, provoca carestie sempre più intense e durature. L’anno passato nel paese sono morte 43.000 persone, la metà delle quali bambini sotto i cinque anni. Allora qualcuno si chiederà “ma cosa ce ne deve importare del Corno d’Africa? Perché curarsi del destino della Somalia? Un paese lontano, distante, “altro” da noi?”

Drammatica tempesta di sabbia nella savana, sconvolge la vita nel campo profughi di Melkadida, Dollo Ado, in Somalia.

Innanzitutto, noi italiano abbiamo un certo dovere morale, un destino culturale, una eredità storica che ci lega inevitabilmente alle sorti di questa regione. E inoltre, molteplici sono gli interessi italiani in ballo: migranti, rotte commerciali, sicurezza. La stabilità del Corno d’Africa è di preminente interesse europeo e mondiale e sono diversi i soldati italiani di istanza in Somalia. E analizzando nello specifico lo Stato che più di tutti ha sofferto le spartizioni che se ne sono fatte in epoca coloniale, si capisce come la Somalia sia da sempre schiava della sua posizione geografica.

Affacciata sull’oceano indiano, da sempre costituì una tappa obbligata, finanche nei tempi della Via della Seta, delle grandi compagnie mercantile del tempo. Anello di congiunzione tra Oriente ed Occidente, mira da sempre delle diverse potenze che si sono susseguite nella storia, il paese è stato spesso diviso, lacerato da conflitti interni, occupato. Così, i somali nella loro estrema povertà si son dovuti ingegnare sfruttando un vantaggio competitivo a loro concesso dato dalla posizione strategica del paese, affacciato com’è sull’oceano indiano. Da questo il crescente fenomeno della pirateria. I pirati somali, tra i più temuti al mondo, hanno fatto per anni banchetto di denaro e merci, rapimenti e successivi riscatti degli equipaggi e delle navi che attraversavano quelle acque infestate. L’Unione Europa fu costretta anche a mettere in piedi una missione, Atalanta, per debellare il fenomeno e così, con fatica, ci si è in parte riusciti.

La nave ‘Virginio Fasan’, della Marina militare, ha intercettato nell’Oceano Indiano e sottoposto a fermo sei persone sospettate di atti di pirateria.I sei, tutti di nazionalità somala, a bordo di due piccole imbarcazioni, avevano tentato l’abbordaggio nei giorni precedenti di un portacontainer.

Tuttavia, la Somalia non solo è infestata di pirati. È forse il paese al mondo in cui il terrorismo islamico, quello di Al Shabaab, si è radicato a tal punto da controllare in alcuni momenti l’80% del territorio. Per quale motivo? Come sempre si parte dalla storia. Caduta nelle mire imperialiste o aspiranti tali di Regno Unito, Francia e Italia, la parte settentrionale cadde nelle mani francesi, l’odierno Gibuti, la parte subito sottostante ai britannici, l’odierno Somaliland, quella meridionale comprendente la capitale Mogadiscio, in mani italiane. E dunque, nonostante a livello etnico il paese sia fortemente omogeneo e il 99% della popolazione di religione musulmana, non è mai esistita nel paese una cultura unitaria. Anche perché una vera e propria lingua somala, strumento essenziale per unire una società, è stata codificata solo nel 1972.

Solo dopo il colonialismo, la Somalia indipendente cadde nelle mani, come spesso accade, di un dittatore, Siad Barre, di stampo socialista. Governò il paese ferocemente dal 1969 al 1991 con un costante appoggio da parte dei tanti governi italiani che si sono avvicendati negli anni, fin quando uno scontro regionale con la vicina Etiopia provocò un cambio di regime. Da quel momento in poi, il disastro. La Somalia era in balia delle fazioni che volevano prevalere le une sulle altre, sguarnita di istituzioni credibili che unificassero le diverse regioni. I signori della guerra somali, dei veri e propri feudatari, cercavano di imporsi gli uni sugli altri e naturalmente in questi vuoti di potere ben presto si insinuarono le corti islamiche. E così, il terrorismo dilagava, facendo leva sulle difficoltà che viveva ogni giorno la popolazione e l’autonomismo di regioni come il Somaliland e il Puntland, l’antica Regno dei Punt al tempo dell’antico Egitto, fiaccavano la già fragile amministrazione centrale somala. Erano dunque così profondi i motivi di instabilità politica. Tutto questo portò al vero e proprio fallimento dello Stato somalo. Una guerra civile durata anni, durante la quale il governo centrale di Mogadiscio, con fatica, ha cercato di rimanere a galla. Solo nel 2012 la Repubblica Federale di Somalia vede la luce grazie agli aiuti economico-militari delle potenze straniere. La sua posizione geografica ha spinto i governi della vicina penisola arabica (sauditi, emiratini, qatarioti) a stabilizzare l’intera regione del Corno d’Africa e garantire un flusso di merci senza ostacoli nello stretto di Bab el-Mandeb, obiettivo condiviso da Stati Uniti e Turchia, dimostrato dalla loro crescente presenza economico-militare nella regione e dalla Cina, determinata a delimitare anche la sua sfera di influenza.

Locali fuggono dalla scena mentre le forze di sicurezza somale conducono un’operazione per neutralizzare i combattenti appartenenti ad al Shabaab che hanno attaccato un hotel nella capitale Mogadiscio.

Ad oggi, il governo del Presidente Hassan Sheick Mohamud, espressione dell’islamismo moderato utilizzato come collante per unificare il più possibile il paese, è forse nelle condizioni di risollevare il paese. L’obiettivo è quello di ristabilire il monopolio della forza dell’amministrazione centrale sull’intero territorio. Ecco perché Mogadiscio intende creare un apparato di polizia e un esercito in grado di contrastare i tanti contro-poteri all’interno che destabilizzano la Somalia, a partire dalle frange estreme di Al Shabaab. Permangono tutt’oggi in terra somala truppe statunitensi, turche, europee. I tempi non sono ancora maturi per lasciare Mogadiscio, abbandonandola al suo destino. Il governo centrale non ha ancora acquisito la forza necessaria per camminare sulle proprie gambe.

Il presidente della Somalia Hassan Sheikh Mohamud.

Gli interessi in gioco sono diversi. La Somalia, se solo diventasse uno Stato solido, rappresenterebbe un’ottima destinazione per gli investimenti europei, americani e arabi nella regione. Roma, ad esempio, punta a rafforzare il corridoio commerciale Etiopia-Somalia, bypassando ad oggi il Gibuti e aprendo un nuovo canale di contatto con i flussi commerciali che dall’Asia transitano, attraverso le acque somale, verso il mediterraneo. L’Italia sta giocando la sua partita, e lo sta facendo anche bene. Intende accrescere la sua influenza nell’ex colonia, incrementando lo scambio commerciale e gli investimenti. Mogadiscio non è ancora in grado di camminare sulle proprie gambe, questo è vero, abbisogna di tempo, la situazione sta tuttavia migliorando.

In questa regione del Corno d’Africa, una cornice storica di competizione tra potenze locali e internazionali prende forma. Ad esempio, il piccolo Gibuti ospita la sola base militare cinese situata su suolo straniero. Questa area è caratterizzata da posizioni chiave che rivestono un ruolo strategico nell’osservazione e nella gestione del commercio internazionale. In questo contesto, l’Italia ha l’opportunità di svolgere un ruolo significativo. Roma sta cercando di riscattare una storia coloniale che ha lasciato la regione alle prese con problemi economici e sociali. Questa è la nostra occasione di agire, e abbiamo il dovere storico di contribuire, anche in nome della popolazione dimenticata di questa terra.

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