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Il Digital Service Act dell’UE: nuove regole per le Big Tech e la trasparenza online

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Reel, post e feed. Mentre si scrollano i diversi contenuti digital è facile imbattersi in qualche annuncio pubblicitario che “faccia proprio al caso nostro”. Qualche offerta sul paio di scarpe che ci potrebbe piacere, una vacanza a Parigi che sognavamo da tempo o semplicemente notizie che si identificano con i nostri gusti e le nostre preferenze. Tutto questo avviene grazie ad un algoritmo che si basa su chi siamo e che trasforma le nostre informazioni sensibili in inserzioni ad hoc. Ma adesso il Digital Service Act cambia le carte in tavola e i colossi dell’online, che siano piattaforme o social, devono adeguarsi alle nuove regole imposte dall’Unione Europea. Ma cosa è questo nuovo provvedimento e a cosa serve? Il Digital Service Act – chiarisce il Professor Paolo Gatelli (nella foto in evidenza), Professore di ICT e Società dell’Informazione, Senior Research Manager Cetif – Università Cattolica di Milano – è un regolamento entrato in vigore il 25 agosto all’interno dei confini dell’Unione. Questo si applica sostanzialmente a tutti i large player che fanno dell’economia digitale il loro business. Soprattutto va a toccare quelli che posseggono, nella loro popolazione di utenti, fino al 10% di cittadini europei. Tra questi soggetti potremmo trovare principalmente i classici marketplace online, i social network, le piattaforme di condivisione di contenuti video e quelle di viaggio online per la valutazione di alloggi e alberghi. Quindi tutto quello che fa parte della cosiddetta new economy, che tanto new non è più, ma che comunque è entrata nelle abitudini di ogni consumatore che opera in rete al giorno d’oggi.

Quali sono le novità per le BigTech?

Le novità sono principalmente legate alle incombenze di segnalazione di ciò che è un contenuto illegale o dell’abuso che si fa della piattaforma. Era qualcosa che già esisteva in passato ma che adesso viene strutturato, anche grazie all’esistenza di team dedicati all’interno delle Big Tech. Quindi, in pratica, ciò che richiede la normativa è che ci sia qualcuno che effettivamente si occupi di registrare questa avvenuta violazione delle norme, e quindi della legalità dei contenuti presentati e della loro trasparenza , di riportarlo all’autorità, e di fare, verso gli utenti, una manifestazione di motivazioni e di logiche per le quali quei contenuti non debbano più essere presentati.

Una rivoluzione visto che la norma precedente era stata introdotta di più di vent’anni fa?  

Il Digital Service Act contiene diverse novità rispetto alla normativa che nel 2000 aveva cominciato ad inserire questo concetto di trasparenza e di legalità dei contenuti, anche nei confronti dei prodotti che acquistiamo sul marketplace. Quello che appunto risulta più nuovo, e al passo coi tempi, è questa necessità di rendere, non soltanto verso gli utenti e verso le istituzioni ma in generale, più aperto e trasparente tutto quello che viene compiuto all’interno delle piattaforme dai motori di intelligenza e dagli algoritmi. Non è infatti più possibile utilizzare i cosiddetti dark pattern, ovvero suggerire agli utenti dei contenuti tramite di algoritmi non spiegabili.  Questo comporta, oltre a un maggiore controllo, anche la possibilità di cancellare quelle distorsioni che sono avvenute in passato. Pensiamo a quanto è successo per le elezioni americane. Con lo scandalo di Cambridge Analytica siamo tutti venuti a conoscenza del fatto che i contenuti in qualche modo servivano anche a guidare la scelta elettorale.  Questo è solo un esempio sono  tanti i meccanismi di suggerimento di prodotti e di servizi che vengono indirizzati non solo ad utenti di maggiore età ma anche ai minori. Uno dei principi base, dunque, di questa nuova normativa è proprio quello di tutelare un ambiente digitale sano e anche affidabile.

Che accoglienza ha avuto il DSA?

L’accoglienza che questo Regolamento ha ricevuto, come spesso accade, è inizialmente di perplessità legata soprattutto a quelle che sono, anche all’interno della norma stessa, principi meno prescrittivi e più descrittivi. Vuol dire che la norma in qualche modo dice qual è l’indirizzo, qual è l’esigenza che si vuole, ma non suggerisce esattamente come raggiungerla. Queste perplessità si sono attenuate quando è stato reso trasparente che, chiunque voglia operare – parliamo di piattaforme online- all’interno dell’Unione Europea debba adeguarsi. E quindi i principali implicati, le cosiddette Big Tech, si sono dedicate a quello che potremmo definire una sorta di auto miglioramento. Che tipo di approccio hanno usato? Quello che coerentemente era già stato usato col GDPR, la normativa che imponeva maggiore trasparenza sull’uso del dato dell’utente, applicata qualche anno fa. Ora le piattaforme online tendono a restituire all’utente la possibilità di prendere decisioni, di visualizzare chiaramente alcuni elementi che riguardano i loro contenuti e di conseguenza, così facendo, cominciare a dargli anche la possibilità di escludere contenuti sponsorizzati o guidati da algoritmo. In sintesi, adesso si cerca di restituire a chi usufruisce di questi servizi una parte attiva, la possibilità di essere un po’ più padroni non solo di quello che si dà in pasto a questi motori ma anche di quello che si riceve.

Cosa succede nel resto del mondo?

È interessante notare che l’Europa da tempo si muove in modo più vincolante rispetto ad altre realtà geografiche. Dividiamo anche qui, un po’ a colpi di accetta, gli Stati Uniti dall’Europa e dall’Asia, dalla Cina principalmente. Partendo da quest’ultima, è abbastanza risaputo che il governo cinese abbia già un presidio molto forte su quelli che sono gli operatori online, con i social network, e che questi vengano tipicamente integrati anche con la sanità e i servizi pubblici. Questo approccio, se noi andiamo a traslarlo nell’ambito statunitense, è praticamente inesistente per via del primo emendamento che riguarda la libertà di religione, di culto ma anche di espressione e di parola. Lì, dunque, si sta valutando come l’esempio europeo possa spingere anche il regolatore americano a sedersi al tavolo con gli operatori di mercato online e lavorare insieme su quello che può essere effettivamente una versione statunitense.

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