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Attacchi Houthi nel mar Rosso, i costi del trasporto marittimo rischiano di schizzare oltre il 60%

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I costi globali del trasporto marittimo potrebbero schizzare oltre il 60% e la riduzione del numero dei transiti potrebbe cambiare la geografia mondiale dei commerci. La crisi nel Mar Rosso sta mettendo a repentaglio la stabilità delle rotte commerciali internazionali, rendendo in particolare sempre più precaria la sicurezza del Canale di Suez.

Gli attacchi degli Houthi alle navi commerciali stanno alimentando un clima di incertezza crescente e molte compagnie hanno già iniziato a subire i primi contraccolpi, tra ritardi e fermi della produzione, sulle loro attività. In quell’area, infatti, da novembre è stato registrato un calo di viaggi del 70%.

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Una riduzione che al momento non sembra destinata ad arrestarsi presto. “Sicuramente ci sono delle ripercussioni su tutti i settori del trasporto marittimo, perché questa è la rotta più importante fra il Middle East o il Far East verso l’Europa, una delle tratte fondamentali per il commercio internazionale”,  ci spiega il Professor Oliviero Baccelli, direttore del Master Universitario in Economia e management dei Trasporti all’Università Bocconi di Milano. “All’incirca il trenta percento dei traffici commerciali container, ad esempio, passa attraverso il canale di Suez e una deviazione che va dai nove ai quindici giorni, a seconda della destinazione finale, non comporta solo un allungamento dei tempi per tutte le navi ma vuol dire dover ridisegnare l’intero sistema dei trasporti anche per quanto riguarda, ad esempio, la gestione delle scorte, i magazzinaggi e le forniture. Basti pensare che ogni giorno di navigazione aggiuntiva equivale a cento o addirittura centocinquantamila euro in più per nave e le imbarcazioni deviate sono all’incirca una cinquantina al giorno. Pertanto, i costi complessivi sono veramente molto alti”.  

 Quali sono i Paesi che ne risentirebbero maggiormente? 

Sicuramente i Paesi del Mediterraneo centrale e quelli del Mediterraneo orientale per i quali l’allungamento derivante dal passaggio di Capo di Buona Speranza anziché dal canale di Suez è maggiore. Quindi, ad esempio per tutto il Mar Nero l’allungamento delle percorrenze è di oltre venti giorni, per l’Italia all’incirca una quindicina e diciassette per i porti dell’Adriatico, per cui questi sono sicuramente gli ambiti geografici più impattanti.

A preoccupare particolarmente è il comparto energetico, come si stanno affrontando questi timori? 

 Il tema è strettamente legato alla crisi energetica di due anni fa che ha costretto un ridisegno di tutte le rotte, in particolare quelle del petrolio, ma soprattutto quelle del gas. Aver deciso di boicottare giustamente quello proveniente dalla Russia comporta dipendere maggiormente dal Middle East e dal Golfo Arabico in modo particolare.  Per via di questa crisi, se non dovesse rientrare velocemente, le rotte verrebbero allungate di quindici giorni e ciò implica dover gestire le scorte in maniera diversa. Inoltre, visto che in più dipendiamo dai sistemi marittimi anche dal punto di vista della percentuale complessiva dell’import nazionale, ci sarebbero allungamenti dei tempi e costi maggiori di spedizione.

 Mentre si intensificano gli assalti, le compagnie cominciano a dirottare i carichi verso altre tratte, quali sono le alternative al canale di Suez? 

 Le alternative sarebbero in teoria due: la principale è quella di passare attraverso il Capo di Buona Speranza, quindi circumnavigando l’Africa. E questa è la tratta preferibile per l’Europa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, l’alternativa più papabile sarebbe il canale di Panama ma quest’ultimo ad oggi sta soffrendo di una serie di restrizioni alla navigazione dovute alla siccità. Pertanto, tale tragitto, che ad esempio per le rotte che collegano la Cina e la costa orientale degli Stati Uniti veniva utilizzata in modo preponderante in passato, oggi non è più il percorso prioritario. E, proprio perché Panama è diventata meno perseguibile per gli USA che gli americani a partire dallo scorso anno – per tutti i porti della costa orientale che vanno da New York verso la Florida- hanno iniziato ad utilizzare sempre di più il Canale di Suez. Questo è anche il motivo per cui  ad oggi si stanno impegnando così tanto per mantenere la rotta attiva, perché per la costa orientale è diventata particolarmente importante.

Quanto costa scegliere tragitti differenti?

 Sicuramente i temi sono legati ai costi aggiuntivi di navigazione ma anche a quelli di assicurazione. Questa situazione comporta anche di dover utilizzare in maniera meno efficiente l’offerta delle navi, mantenendo ad esempio attive imbarcazioni con età maggiore rispetto agli standard classici. E se la crisi dovesse diventare duratura, tale mantenimento potrebbe ovviamente comportare delle ripercussioni generali sulla sicurezza del sistema. Inoltre, tra i temi più problematici in assoluto c’è quello strettamente legato all’aspetto dell’incertezza riguardo alle possibili soluzioni, sia per quanto concerne il canale di Suez, sia per quanto riguarda quello di Panama. Insicurezze che si riverberano nel sistema con costi aggiuntivi derivanti da dover provvedere ad avere magazzini con scorte maggiori, avere sistemi che devono essere più ridondanti anche in termini di disponibilità di forniture di backup. Anche se penso che l’argomento più critico in assoluto è che probabilmente questo tipo di crisi nelle prossime settimane si potrebbe estendere anche ad altri ambiti geografici e causare delle conseguenze ancora più rilevanti. 

 Quali sono le ripercussioni per il nostro Paese?

Il sistema economico italiano nel corso degli ultimi anni è sempre più dipeso dall’interscambio commerciale internazionale. Pertanto, praticamente tutti i settori vengono impattati ma con differenti livelli. Le prime a subirne le conseguenze più significative sono sicuramente le grandi multinazionali che nel settore manifatturiero dipendono da componentistica, da ricambi e da semilavorati derivanti dal Far East. Questi allungamenti dei tempi comportano infatti anche una revisione delle catene di assemblaggio. In particolare, il settore automotive è il primo ad essere colpito. La logistica delle auto nuove dipende particolarmente dal settore del trasporto marittimo, perché molte delle auto importate in Italia provengono dal Giappone e dalla Cina, e queste verranno consegnate con decine e decine di giorni di ritardo. Ma soprattutto il settore energetico è quello che va monitorato con maggiore attenzione perché la dipendenza dal petrolio, e in particolar modo dal gas naturale liquefatto, che vengono estratti nel Golfo Arabico, sono quelli che soffrono tempistiche di consegna allungate in maniera più importante. Quindi gestire quelle riserve in modo oculato ovviamente diventa particolarmente critico. In sintesi, il sistema elettrico, il sistema manifatturiero e in generale tutte le importazioni dal Far East verranno in qualche modo riviste nel corso dei prossimi mesi.

 Ci saranno ripercussioni anche per il settore agroalimentare italiano? 

 Tutti i prodotti che hanno una durata sullo scaffale limitata e che quindi devono raggiungere le destinazioni in tempi molto brevi sono tra quelli maggiormente colpiti da questa situazione. Un allungamento di quindici giorni per un prodotto deperibile come possono essere tutti i prodotti ortofrutticoli italiani, ovviamente fa perdere a questi valore sul mercato oppure, in maniera più drastica, addirittura la possibilità di andare su quel mercato. La sostituzione del trasporto marittimo con il trasporto aereo poi è sì plausibile ma per una nicchia molto ristretta di prodotti, quelli a maggior valore aggiunto. Questo logicamente perché il costo aggiuntivo del trasporto aereo è particolarmente significativo rispetto a quello marittimo, si parla sette, a volte dieci volte in più, per cui molti prodotti rischiano di perdere quote di mercato in quelle direttrici.  

 Il coinvolgimento dei Paesi occidentali porta con sé il rischio che la questione si allarghi e che comporti conseguenze più dirette sull’economia globale?

 È chiaro che siamo in una situazione di enorme incertezza, in cui nessuno è in grado di costruire degli scenari realmente plausibili. Quello che si può dire è che le marinerie, intese come le marine militari, nel corso degli ultimi anni hanno imparato a collaborare in maniera molto stretta, anche perché in quelle zone in passato ci sono stati atti di pirateria importanti. Esiste quindi una sorta di abitudine a gestire in modo coordinato navi di più Paesi e diverse missioni. Questo aspetto è fondamentale perché la velocità nella reazione diventa uno degli elementi sostanzialmente fondamentali per cercare di ridurre i rischi di allargamento. L’’Italia ha un’esperienza da questo punto di vista importante da offrire. È urgente che, a fianco a quello che già stanno facendo degli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ci sia una risposta unitaria da parte dell’Unione Europea. Più Paesi si alleano, più navi militari sono coordinate in quella zona, maggiore sarà l’effetto deterrenza e la riduzione del rischio dell’allargamento.

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