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Tim è una public company, per ora

(Aggiornamento di un articolo pubblicato sul numero luglio/agosto di Fortune Italia)

La battaglia è stata aspra. È stata combattuta sul mercato, negli uffici legali e anche nelle aule di Tribunale. Ha visto uno sfidante, il fondo attivista americano Elliott, contendere e sfilare la governance di Tim al suo primo azionista, il gruppo francese Vivendi. Si è chiusa con la nomina di un nuovo cda controllato dai consiglieri indipendenti indicati dal fondo Usa e presieduto da Fulvio Conti, con la conferma dell’amministratore delegato Amos Genish e con i francesi di Vincent Bolloré che restano largamente il primo socio, con il 23,94%, pur non avendo più il controllo. Si è compiuta una vera e propria rivoluzione, con una proposta di mercato che è stata capace di sovvertire l’ordine costituito: è nata una public company. Con il sostegno degli altri azionisti e con l’appoggio significativo del Governo, convinto di aver trovato la strada giusta per tutelare un asset strategico come quello della rete di cui è proprietaria la compagnia telefonica.

Quasi tutti gli osservatori hanno celebrato un passaggio storico per la finanza italiana, evidenziando l’efficacia delle mosse di Elliott e gli errori compiuti da Vivendi. In estrema sintesi, il gruppo francese ha accumulato troppi nemici, tutti insieme. Alla fine, la politica aggressiva di Bolloré si è infranta contro il muro di un’operazione su cui sono confluiti gli interessi di un intero sistema: scontenti gli azionisti per l’andamento del titolo, preoccupate le Istituzioni per l’esuberanza mostrata, impegnati i Regolatori in un complicato scenario per la doppia partita con Mediaset. Non a caso Cassa depositi e prestiti, il ‘braccio armato’ del Governo nelle partite che contano, è scesa in campo, ha acquistato il 5% e lo ha schierato con gli americani. Così come a sostegno di Elliott si sono espressi tutti gli altri fondi, decretando il successo in assemblea della lista che ha sconfitto quella di maggioranza presentata da Vivendi.

I Francesi non hanno solo perso il controllo del cda di Tim. Hanno anche incassato una sconfitta potenzialmente ‘pericolosa’ per la sua strategia complessiva. Anche per questo tutti gli analisti, da subito, si sono mostrati concordi nel sostenere che Vivendi sarebbe rimasta nel capitale nella società telefonica in attesa di tempi migliori e in attesa di decidere cosa fare anche della partecipazione in Mediaset, con una quota del 19,95% parcheggiata in un blind trust per rispettare gli obblighi imposti dall’Agcom. In gioco, tra l’altro, c’è anche la credibilità personale di Bolloré, messo già in difficoltà dalle vicende giudiziarie che lo coinvolgono per una presunta corruzione internazionale: deve rendere conto anche ai suoi azionisti in Francia delle conseguenze della difficile campagna d’Italia. Proprio alla luce di queste considerazioni, sono in molti a pensare che Vivendi possa attendere il momento giusto per tentare un nuovo ‘ribaltone’ in Tim.

La tregua che è stata scritta con l’ultima assemblea e la nomina del nuovo consiglio di amministrazione, del resto, potrebbe non reggere a lungo. La public company è una scelta affascinante ma per essere stabile deve avere caratteristiche che oggi Tim non ha: una grande capitalizzazione e una performance da leader di mercato. Nella versione attuale, il rischio è quello di dover fronteggiare importanti difficoltà di gestione, rimanendo continuamente esposti alla prospettiva di un’azione di forza da parte di un socio che controlla un quarto del capitale.

Sul primo fronte, a pesare c’è anche la composizione del cda. Basta scorrere l’elenco dei membri che compongono il board per imbattersi in personalità di spicco che, insieme all’indubbia competenza, potrebbero anche avanzare legittime aspirazioni personali. Sicuramente, sono profili in grado di sostenere una accesa dialettica in cda. Andando oltre la fisiologica diarchia tra il presidente, candidato da Elliott, e l’amministratore delegato, uomo di Vivendi, figure come quelle di Luigi Gubitosi, Alfredo Altavilla e Massimo Ferrari hanno il loro peso specifico. Il primo è commissario straordinario di Alitalia, è stato amministratore delegato di Wind, diretta concorrente di Tim nel settore delle tlc, oltre che direttore generale della Rai. Il secondo si è dimesso dal suo ruolo di Chief operating officer area Emea (Europa, Africa e Medio Oriente) di Fca dopo la scomparsa di Sergio Marchionne e la decisione di affidare la successione a Mike Manley. Il terzo è general manager e Cfo di Salini Impregilo. Altro nome di spicco è quello del direttore commerciale Pietro Scott Jovane, ex amministratore delegato di Rcs che si trova a dover fronteggiare l’aggressiva strategia di Iliad, nuovo competitor nella telefonia mobile, sbarcato in Italia con tariffe bassissime e in grado, secondo gli esperti di settore, di rubare più rapidamente del previsto clienti a Tim, oltre che agli altri operatori che si spartiscono la maggior parte del mercato italiano, Vodafone e Wind Tre.

Quanto alla possibile reazione di Vivendi, a incidere sono innanzitutto le regole. Un socio che controlla più di un quinto del capitale può proporre a ogni assemblea di bilancio, e senza preavviso nell’ordine del giorno, la revoca degli amministratori e l’azione di responsabilità che, se approvata, farebbe immediatamente decadere il cda. Una carta che il gruppo francese ha in mano e che potrebbe giocare presto.

Poi c’è l’andamento del titolo. Il 4 maggio scorso, il giorno dell’assemblea, chiudeva a 0,855 euro. Oggi vale 0,522 euro, con un calo ampiamente che sfiora il 40%. Questo vuol dire che chi ha investito prima e a ridosso dell’assemblea ha perso denaro. E può in parte anche spiegare perché sono in molti a scommettere che la partecipazione dell’8,27% schierata in assemblea dal Fondo Elliott, per l’esattezza dal general partner Paul E. Singer attraverso diverse controllate, sia destinata a scendere molto rapidamente.

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