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L’Italia è tecnicamente in recessione. E’ arrivata la conferma ufficiale, con la stima dell’Istat che fissa in calo dello 0,2% la crescita anche nel quarto trimestre 2018. Ogni analisi non può che partire dallo scenario di fondo: l’economia mondiale sta rallentando ma l’Italia si sta fermando. Un’altra volta. La tanto sospirata ripresa è durata poco a livello globale e ancora meno in un Paese, come il nostro, che sconta una lista ancora lunga di ritardi strutturali. Ci sono i numeri a segnalare un nuovo passaggio difficile per l’economia, che sembra destinato a durare. La Bce ha appena rivisto al ribasso le sue stime, parlando di un deciso rallentamento nell’area Euro; Bankitalia e Fmi hanno praticamente dimezzato la loro previsione di crescita dell’Italia per quest’anno, confluendo su un preoccupante 0,6% che riporta il pil in area stagnazione.

Poi ci si può chiedere perché si è innescata nuovamente questa dinamica. Gli economisti guardano alla Cina, alla guerra commerciale alimentata da Trump, ma le preoccupazioni maggiori torna a darle l’Europa. Secondo il Fmi, in particolare, riguardano la Germania, “dove le difficoltà di produzione nel settore auto e la domanda esterna più bassa peseranno sulla crescita nel 2019”, e l’Italia, “dove il rischio sovrano e quello finanziario, e i collegamenti tra i due, aggiungono venti contrari alla crescita”. A questi due fattori si aggiunge il pasticcio Brexit.

Tutti i fattori di rischio sembrano avere un comune denominatore: l’incertezza, che produce un calo di fiducia e, a cascata, una contrazione dell’attività economica. Non è necessario andare troppo oltre per evidenziare che il comportamento “non so cosa succederà, meglio rimandare spese e investimenti” e’ considerato un riflesso condizionato, una risposta istintiva, ormai ampiamente collaudato da parte delle imprese e dei consumatori. Sempre l’incertezza penalizza i mercati, aumentando i costi di gestione del debito pubblico e colpendo gli investimenti degli italiani.

L’altra domanda che segue, e che dovrebbe porsi soprattutto chi ha responsabilità di governo, è: come è meglio reagire di fronte a questo scenario? La risposta più immediata, anche questa piuttosto logica ma ampiamente sorretta da solide argomentazioni nella teoria economica, dovrebbe essere: facciamo qualunque cosa sia utile a ridurre l’incertezza. Un passo che si può fare solo utilizzando le risorse disponibili rilanciando gli investimenti e favorendo la creazione di lavoro, puntando sulle politiche attive e sulle norme che possono aiutare le imprese a offrire occupazione vera, e sulla semplificazione della macchina burocratica.

Le risposte che sono arrivate finora dal governo M5S-Lega vanno in una direzione diversa. Reddito di cittadinanza e quota 100 sono due misure che, se applicate correttamente, possono portare più equità e anche offrire una parziale soluzione alla sofferenza delle fasce più esposte alle difficoltà economiche. Ma hanno, oggi, due problemi sostanziali: sono applicate male, soprattutto per carenza di risorse, e non sono la priorità. Peggio, tolgono spazio e risorse alle misure prioritarie che servirebbero per ridurre l’incertezza e sostenere la crescita.

Per questo, servirebbe un confronto serio nel merito di quello che si è fatto e di quello che si dovrebbe fare. Ma la propaganda impone a Di Maio di sostenere che Bankitalia “non ci prende mai” e a Salvini di dire che è “il Fmi la vera minaccia per l’economia mondiale”. Anche di fronte alla conferma dell’Istat i toni sono rimasti gli stessi. Il leader Cinquestelle vuole evidenziare che “chi stava al governo prima di noi ha mentito”. Sarà così almeno fino alla prossime europee, con le continue schermaglie tra gialli e verdi a creare altra incertezza, allontanando il tempo delle risposte concrete al problema principale, quello di un’economia soffocata proprio dall’incertezza.

 

 

 

 

 

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