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Ilva, il negoziato estremo di Lucia Morselli

Lucia morselli ArcelorMittal Tim Ilva

Quando si deve scegliere un amministratore delegato, entrano in gioco azionisti, consulenti e cacciatori di teste. Pesano le competenze, le storie e le relazioni personali. Quando si deve scegliere, in Italia, un amministratore delegato che deve affrontare una profonda ristrutturazione e si vuole portare a casa un piano industriale aggressivo, passando per un ‘negoziato estremo’, c’è un nome che ricorre: quello di Lucia Morselli.

Puntuale, come una sentenza secondo i detrattori e come una logica conseguenza secondo chi ne apprezza i modi e le strategie, è arrivata la nomina della manager alla guida di ArcelorMittal Italia.

Una nuova sfida sul terreno più difficile, quello dell’Ilva di Taranto, che Morselli conosce bene. Ha già lavorato nel settore dell’acciaio, ultima esperienza la Ast di Terni, e ha guidato la cordata avversaria di ArcelorMittal (Arvedi, Cdp, Jindal e la Delfin di Leonardo Del Vecchio) proprio nella corsa all’Ilva in amministrazione straordinaria. Morselli si muove con disinvoltura nel settore, è abituata a frequentare il contesto e tutti gli interlocutori, a partire da quelli istituzionali e dai sindacati, che deve affrontare nella sua nuova mission manageriale. Ha alle spalle una storia che parla più delle sue stesse parole. Ha dichiarato, appena insediata, di voler fare del suo meglio “per garantire il futuro dell’azienda e far sì che il suo contributo sia apprezzato da tutti gli stakeholder”.

Il primo passo concreto, dopo due settimane, lascia pochi dubbi sulle sue reali intenzioni. Ha comunicato al governo la scelta di rinunciare all’Ilva di Taranto, riconsegnandola ai commissari, vista l’impossibilità di andare avanti senza lo ‘scudo penale’ che serve a difendere manager e dipendenti da prevedibili guai giudiziari nella delicata gestione della bonifica ambientale. Ha fatto la sua mossa, ha messo la pistola sul tavolo, convinta delle sue ragioni e, evidentemente, coperta dai suoi azionisti che l’hanno scelta proprio per la sua riconosciuta capacità di andare dritta all’obiettivo finale.

Prima ancora dell’annuncio, ha fatto un’altra scelta che descrive il suo approccio al problema e la strategia individuata per la sua soluzione. Ha portato all’Ilva un altro manager che conosce bene il ‘mestiere’: il nuovo capo del personale, Arturo Ferrucci, è lo stesso che ha lavorato con lei alla Ast di Terni. In Umbria, lo ricordano bene. Nel 2014 una vertenza durissima, passata per uno sciopero di 36 giorni alle acciaierie, ha portato all’uscita di 290 tra operai e dipendenti. Dovevamo essere 400 nei piani iniziali. Ma si sa che il risultato finale è sempre formalmente ‘ridimensionato’ rispetto alla richiesta di partenza. Funziona così in ogni negoziato, anche in quelli più ‘estremi’.

Non è difficile ipotizzare che lo schema per l’Ilva, oggi, sia lo stesso. Con una serie di fattori che lo rendono, per molti aspetti, un ‘upgrade’ del metodo Morselli.

Il primo è l’assist fornito dagli errori della politica. Di una parte (i Cinquestelle) che ritiene utile far prevalere logiche ideologiche rispetto a quelle industriali e dell’altra (prima la Lega e poi il Pd) che ritiene, in nome della necessaria convivenza di governo, utile piegarsi alle stesse logiche senza neanche condividerle. Lo ‘scudo penale’ per chi opera sull’Ilva di Taranto non ha nulla a che vedere con il ritornello “onestà, onestà, onestà” e neanche con la sacrosanta tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente. È, semplicemente, uno strumento indispensabile per consentire un investimento privato in un contesto complesso come quello dell’acciaieria di Taranto.

Il secondo è la bomba sociale pronta a esplodere con la chiusura dell’Ilva, che metterebbe in ginocchio non solo Taranto ma anche quello che resta del settore metallurgico in Italia.

In questo scenario, con la pistola in bella evidenza sul tavolo, inizia il negoziato. Il governo è in evidente difficoltà, i sindacati anche, i lavoratori sono come sempre in attesa di conoscere il loro destino.

Chi sicuramente è più a suo agio è proprio Lucia Morselli. Non perché sia una sadica carnefice ma perché sa fare il suo mestiere, che fa da anni con il suo metodo. Sempre lo stesso. Parla poco con la stampa e non ama i riflettori. Ma chi le ha parlato spesso, in passato, può aggiungere qualcosa al suo ritratto più convenzionale. Ragiona per obiettivi, considera variabili e ipotesi, e punta con decisione verso la ‘sua’ soluzione. Vede poco altro, intorno. Un valore aggiunto e anche un limite evidente. Lucia Morselli ha una concezione dell’industria e del lavoro che si presta a valutazioni diverse. Criticabile, addirittura detestabile, se letta attraverso la lente di chi ritiene alcuni diritti inviolabili e le ragioni dell’impresa una parte del problema. Realista, addirittura imprescindibile, per chi guarda esclusivamente al risultato dell’azienda come parametro principale.

Resta un dato inconfutabile. Morselli fa l’amministratore delegato e risponde ai suoi azionisti. Gli altri interessi, quelli del Paese e quelli dei lavoratori innanzitutto, devono essere difesi dal governo e dai sindacati. Ognuno faccia la sua parte. E che alla fine il negoziato arrivi a una soluzione di buon senso. Nonostante la lunga serie di errori e il tempo perso finora.

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