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Il caso Adidas è la fine dell’industria 4.0?

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A fine 2015 iniziava il reshoring. Si abbatterono foreste per stampare tonnellate di copie di giornale e parlare del miracolo del reshoring. Ci fu un blackout in Europa quando tutte le testate online furono invase da un traffico immane di lettori per il caso Adidas reshoring. La nota marca di sneakers decise di fare reshoring, aprendo una sede di produzione in Germania e una in America.

La vera notizia però era ancora tutta a divenire. L’Adidas non si limitava a rimpatriare (in minima parte) le produzioni ma a mettere in attività impianti 4.0. In pratica il mondo occidentale avrebbe avuto una soluzione operativa per riportare impiego nelle fabbriche manufatturiere. Anche in questo caso petabyte di power-point aziendali si sono sprecati. Qualunque venditore d’industria 4.0 (hardware o software) ebbe eventi di estasi tantrica nel poter piazzare, ad ogni piccola media impresa, un power-point con un caso storico come Adidas. La battuta del venditore di software era scontata: “scusate se lo ha fatto Adidas non volete farlo anche voi?”. Persino i politici (lungimiranti come al solito), nella loro visione di lungo termine per la crescita economica delle proprie nazioni, presero a lodare la scelta di Adidas. Solo 4 anni fa succedeva questo, poi?

Speedfactory interruptus e Adidas fa marcia indietro. È di questi giorni la notizia che il gruppo porterà il suo knowhow (acquisito anche nella sua breve esperienza occidentale) di nuovo in oriente. Adidas nel suo impianto tedesco produceva un piccolo range di sneakers come le Futurecraft M.F.G (Made For Germany) e una linea di sneakers chiamata AM4 (Adidas Made For) ispirata da 6 grandi città e artisti come DJ Kittens e JaQuel Knight. Ora immagino che la linea di scarpa si chiamerà Futurecraft M.F.C (Made For Cina). A dirla tutta lo stesso Ceo di Adidas, aveva fatto presente che non si trattava di reshoring, ma valli a fermare i giornali e i politici quando prendono il via.

Adidas temo, e lo dico con seria preoccupazione, che sia solo il primo di una nuova ondata di ‘Hard’ Off shoring. Mi riferisco a una dinamica di ulteriore e profondo “scambio di tecnologie” e integrazione dell’industria 4.0 (e la rispettiva filiera) in una nazione o un area, quella cinese. Una migrazione “dura” di tecnologie occidentali molto avanzate (come la I4.0) portate nella sfera d’influenza cinese (che include anche Africa, Stati tra Cina e India e un pezzetto di America latina) da qualche bravo manager, che già si lecca i baffi, al pensiero di un paio di trimestri super pompati. A questo scenario si aggiunga quello “autoctono” cinese del China 2025 orientato pesantemente verso la industria 4.0.

Per capire veramente lo scenario e il mio timore, lascio a voi decidere se giustificato, è bene fare, come al solito, un passo indietro nella storia, per capire da dove è nato il successo dell’off-shoring che tutti conosciamo.

Un austriaco, Hayek, ipotizzò gli standard del mercato libero e del liberismo. Le sue opere principali si trovano facilmente in rete. Nella eredità lasciataci è da ricordare la Mount Pelerin Society. Fondata nel 47, post guerra mondiale, aveva (e ha tutt’oggi) l’ambizione di mantenere, e far crescere, le grandi conquiste dell’uomo occidentale: la libertà di opinione e la libertà economica (liberismo). Tra i fondatori oltre al menzionato Hayek vi erano storici, filosofi ed economisti tra i quali appare anche Milton Friedman, il fondatore del pensiero neo-liberista per cui è diventata famosa la Chicago University.

Per farla breve, Friedman ha ereditato e potenziato la visione di Hayek diventando il padre nobile del pensiero neoliberista. Dobbiamo ringraziare quest’uomo per una serie di successi dell’economia occidentale americana: dalle rivolte dei popoli stranieri per inseguire un mercato libero scevro da comunismi, despotismi o nazionalismi (il successo del democratico Pinochet, tanto per dire) sino a operazioni di de-industrializzazione della stessa America favore di un off-shoring selvaggio (la bibbia the world is Flat per chi voglia approfondire). Tra le sue ultime chicche abbiamo le proposte di valorizzare le crisi naturali per creare una Clean Slate (una superficie pulita) su cui costruire nuovi modelli di sviluppo come, per esempio, una scuola moderna e totalmente privata (sua la perla di privatizzare tutto il sistema scolastico di New Orleans post tifone Katrina).

Ma è il successo dell’off-shoring su cui mi concentro per capire bene l’intuizione occidentale e il caso di “andata e ritorno” di Adidas.

Il principio dell’off-shoring è semplice e geniale, sulla carta. Se io azienda americana pago il mio operaio (i colletti blu che poi han votato Trump…) 2000 dollari al mese, più assicurazione sanitaria etc.. è un costo; specialmente se parliamo di produzione industriale (dai cellulari alle camice). Questo tipo di produzione può essere “scalata”. C’è però un problema: aumentando i fattori non-umani di produzione da un lato (macchinari, energia e capitali) resta un collo di bottiglia nel costo umano. Questo costo in America e occidente è scarsamente scalabile o comprimibile. L’operaio americano, comunque, mi costa sempre 2000 dollari. Così esportiamo le macchine in paesi dove il costo del lavoro, e magari pure le legislazioni sul lavoro sono più performanti (parola carina, aziendale, per dire che costano meno). Se partiamo da questa riflessione, in termini di gestione e finanza non fa una grinza, spostiamo i macchinari e il know-how in paesi “più leggeri” sul tema lavoro e stipendi. Così quando la Cina venne tirata dentro per i capelli nel WTO divenne la nazione dove tutto si poteva produrre. Venne permesso a un gigante con un costo del lavoro insignificante e una forza lavoro immensa di diventare la fabbrica del mondo. Le conseguenze pratiche (alcune delle più note almeno) furono trimestri da paura per le multinazionali occidentali, la flessibilità di produrre qualunque cosa, in qualunque modo, in tempi ridotti (bastava “scalare” buttando dentro, in un piano di produzione, più cinesi, tanto abbondavano e costavano una ciotola di riso). Tra gli aspetti negativi meno discussi ci sono stati la de-industrializzazione sistematica dell’occidente, l’aver regalato decenni di successi industriali, patenti e know-how alla Cina e aver impoverito la classe media lavoratrice occidentale. Di qui una serie di fenomeni che Friedman & Co non avevano previsto (o forse si, vallo a sapere, al momento Friedman non è disponibile per un intervista, salvo resurrezione): l’impoverimento estremo della classe media, la crescita a dismisura del credito al consumo (e dei mutui immobiliari dati a chiunque), l’estremizzazione della società e la sua polarizzazione. Tra i fenomeni più recenti, conseguenze di quelli appena menzionati, ci sono la crisi del 2008 (avidità sommata ad ignoranza finanziaria e pessimi stipendi) e le esperienze di nazionalismi (o sovranismi) crescenti in tutte le nazioni occidentali (impoverite e quindi con una popolazione un poco turbata, che non crede più al mito del globalismo e liberismo buono e bello).

Con questo scenario, molto riassunto, il caso Adidas e la speranza che esso rappresentava immagino cominci a prendere forma nella mente del lettore. Mentre in Italia d’industria 4.0 si parla (tanto) e si fa (non molto) le grandi multinazionali stanno già comprendendo una cosa: al netto del politicamente corretto, e magari l’opportunità di avere qualche tax break in patria, il re-shoring, pur se fatto usando industria 4.0 (che si traduce in meno assunzioni) non è molto intrigante se fatto in occidente.

Uno dei miti, bene inteso a cui ho creduto (anche a me capita di illudermi delle volte, chiedo venia), era che, grazie alla industria 4.0, l’occidente poteva riprendere una parte di quella occupazione che ha perso decine di anni, fa a favore del blocco cino-asiatico (e colonie associate, menzionate prima). Il concetto stesso d’industria 4.0 implica che un’intera filiera del valore (a partire dal pelo di lana sino al maglione in vendita) debba essere allineata nello stesso ecosistema. In questo modo l’intera catena del valore diventa proattiva e non più reattiva. Per dirla in modo semplice facciamo un esempio: se domani il Mario Rossi, facendo shopping in Vittorio Emanuele, vuole la scarpa giallo canarino, ne fa un hashtag e un milione di Mario Rossi follower la vogliono, la catena della produzione di sneakers (magari Adidas) si attiva e la produce al volo, grazie ai dati che acquisisce dalla rete catturando il trend topic #sneakergiallocanarino.

Questa pareva essere la visione di Adidas che, come ha spiegato, con le sue speed factory voleva essere più vicino al suo mercati ricchi ed esigenti, in termini di richieste personalizzabili last minute.

Questo avrebbe implicato una ricaduta occupazionale positiva sulla filiera dei fornitori di Adidas (Germania e America), sino ad arrivare al bar sotto casa del fornitore che vendeva più caffè (magari un espresso italiano, che quello tedesco non è il massimo).

La speranza che l’industria 4.0 possa essere il punto di svolta per re-impatriare una serie di aziende manufatturiere, pur se con una forza lavoro minore rispetto ai siti europei di qualche decennio prima, è alla base dello storytelling di successo con cui viene venduto l’impatto (positivo) dell’industria 4.0 ai politici, decision maker aziendali e alla società civile.

Lo scenario, potenzialmente roseo, che questo storytelling industria 4.0 implicava era importante perché poteva trascinare con se molti mutamenti sociali e politici: depolarizzazione della società, remissione di posizioni estreme (e nazionaliste) tra le fasce più deboli (toccate e influenzate direttamente dalla disoccupazione), una crescita o una stabilizzazione delle entrate per gli stati occidentali e le rispettive pensioni per il sistema sociale.

Se ora, e spero di sbagliarmi, il caso Adidas sarà d’ispirazione e guida per molte altre aziende del retail e la loro filiera, è plausibile immaginare che nel prossimo decennio quei timidi tentativi di reshoring possano sciogliersi come neve al sole.

Forse, ora, è più comprensibile la mia preoccupazione per un gesto, quello di Adidas, che potrebbe avere un effetto palla di neve: parte piccola ma quando, rotolando, giunge a valle, è una valanga di neve che non risparmia nessuno.

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