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Il Green Deal della Ue è una scommessa

Il Green deal illustrato nei giorni scorsi dalla Presidente della Commissione UE, seppur ancora fondato su strumenti confusi (incentivi o tasse? Riconversione o deindustrializzazione a favore del mercato dei servizi?) e di incerta attuazione (con quali tempistiche? I rapporti tra i vari Stati membri? Con quali risorse?), conferma che ormai sviluppo sostenibile, tutela degli ecosistemi e ponderazione degli interessi tra attività produttiva, lavoro e preservazione dell’ambiente e della salute, sono già oggi i temi centrali di politica di diritto e le nuove generazioni dovranno riflettere a lungo su come trovare soluzioni equilibrate e virtuose.
Sotto il profilo squisitamente tecnico-giuridico ancora nulla si può dire sensatamente, essendo una fase preliminare di annunci e di ricerca di consenso e di alleanze. Ma alcuni rilievi sui processi di politica legislativa in corso possono essere accennati.
Innanzitutto, è definitivamente confermato il ruolo aggregante delle politiche ambientali in un contesto di stasi e riconversione del sistema produttivo europeo e nazionale. Si tratta di un’occasione unica per i nostri territori. L’occasione di ridare dignità alle singole persone “umane” (tutti noi) danneggiate da condotte che non hanno considerato che l’ecosistema ha un valore inestimabile, anzi ogni suo “frammento” ha un valore inestimabile, un valore “esistenziale” più che “biologico”, che intacca la nostra cultura e la nostra storia e si collega alla liberta di agire senza essere danneggiati a “casa” nostra.
La speranza tuttavia è che ciò non si fondi su una visione ecocentrica del rapporto tra uomo e ambiente, ma antropocentrica, in cui è l’essere umano ad essere il “soggetto” destinatario dei (potenziali) benefici delle politiche pubbliche. Senza che la natura abbia un valore in “sé”. In quest’ultimo caso, invero, si rischierebbe una deriva ambientalista a scapito di crescita economica, benessere, qualità della vita e salute che sarebbe controproducente addirittura rispetto alla situazione attuale.
In secondo luogo, il contesto internazionale.
L’UE sta facendo una enorme scommessa economica e geopolitica: l’adozione di misure di gestione razionale delle risorse naturali e la conversione del sistema produttivo verso scelte tecnologiche di minore impatto per l’ambiente e la salute dei cittadini, oltre a conseguire uno sviluppo sostenibile delle attività imprenditoriali, aumenta la stessa capacità concorrenziale della nostra economia? E’ vero che mancata sostenibilità si integra con mancata crescita (economica e non)? Qui probabilmente dovranno essere rivisti i parametri di riferimento della qualità della vita, ma il rischio reale è di perdere centralità (e potere) rispetto a coloro (Cina ed India, ad esempio) che scelte economiche ambientaliste forse non faranno se non quando (e se) costretti dagli eventi.
Il passaggio è molto stretto e va affrontato con cautela e saggezza. Ma non possiamo non notare che probabilmente si tratta di una scommessa che, alla luce degli imminenti cambiamenti climatici e soprattutto della crescita esponenziale delle economie emergenti, non potevamo esimerci come europei da tentare. Andranno tuttavia individuate adeguate misure commerciali non punitive, che altrimenti rischierebbero di causare danni al commercio internazionale e i primi danneggiati saremmo noi. In tale logica, non ci appaiono idonee le proposte di limitare la circolazione dei prodotti solo a quelli “ecosostenibili”, anche perché violerebbero gli accordi della World Trade Organization (che seppur posta recentemente in discussione, resta al momento l’unico riferimento di hard law della materia).
Infine, la specificità dell’Italia e i suoi interessi. Essi sono certamente strettamente connessi con quelli europei, anche perché restiamo l’ottava potenza mondiale per prodotto interno lordo e il secondo paese manifatturiero europeo. Tuttavia, scontiamo deficit di produttività, politiche industriali non efficienti, senza visione e durature. Una rivoluzione green non ben gestita ed equilibrata rischierebbe di escluderci definitivamente dal club degli Stati portanti della economia mondiale. Non ripetiamo qui concetti (purtroppo) noti a tutti, ma vanno evitate ad ogni costo misure repressive (come la plastic tax e surrogati vari) e si dovrebbe puntare tutto su strumenti espansivi della economia, indirizzati verso la sostenibilità e la preservazione degli ecosistemi. Si tratta di un nuovo paradigma di politica economica, fondato su una ideologia probabilmente post-liberale in cui l’intervento pubblico appare assumere un connotato forse eccessivo rispetto alla “ordinaria” vita delle economie democratiche di mercato, ma – a questo punto – necessario. Ora ci stiamo giocando la permanenza tra i Paesi più ricchi del pianeta e l’irrilevanza (politica, culturale e sociale) è dietro l’angolo. Speriamo che la classe politica sia all’altezza, l’occasione non può essere mancata.
* Francesco Bruno è docente di Diritto ambientale e alimentare presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma
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