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Governo fermo, la recessione non aspetta

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La prescrizione è un tema importante. Merita tutta l’attenzione necessaria per arrivare a una soluzione che renda migliore il funzionamento del processo e della giustizia. Ma la prescrizione, o il prossimo tema utile a marcare distanze, differenze e diffidenze nella maggioranza, diventa un problema se serve a trovare l’ennesimo alibi per giustificare l’immobilismo del governo. Se il primo governo Conte, quello giallo-verde, faceva scelte sbagliate, dettate dalla concorrenza fra le misure di bandiera di Lega e Cinquestelle, il secondo governo Conte, quello giallo-rosso, sta navigando a vista. E rischia di continuare a girare a vuoto mentre una nuova recessione avanza.

I dati sulla produzione industriale, un calo a dicembre 2019 del 4,3% rispetto allo stesso mese del 2018 e dell’1,3% sull’anno intero, primo dato negativo dal 2014, sono la spia di un’emergenza che non si può sottovalutare. E tutte le complicate vertenze aperte, dall’Ilva all’Alitalia, passando per Whirlpool e Air Italy, aggiungono sostanza a un tema di fondo che rischia di diventare ‘fatale’, per il governo e soprattutto per l’economia italiana: manca una politica industriale capace di dare una prospettiva, di immaginare un percorso coerente. Non si fa con i proclami e con le buone intenzioni: servono risorse, pianificazione, investimenti.

Serve anche una politica capace di creare un contesto favorevole alle imprese. Che non vuol dire legiferare a vantaggio delle imprese e contro i lavoratori. L’idea che la compressione dei diritti e il costante taglio dei salari servano ad aumentare la competitività è stata confutata in tutto il mondo, ovunque un’impresa capace di fare impresa abbia potuto contare su un sistema che funziona. Creare un contesto favorevole vuol dire dare certezza delle regole, semplificare gli adempimenti burocratici, agevolare quei settori che possono trainare veramente la crescita e creare lavoro.

È uno sforzo che non va fatto senza pretendere una adeguata contropartita. La responsabilità delle imprese è l’altro tema centrale. Un governo che fa una politica industriale strutturale, che aiuti a cambiare il contesto, può e deve pretendere che le imprese facciano la loro parte. Non per beneficenza e neanche per gentile concessione. Deve convenire all’azienda interagire in maniera corretta con i suoi stakeholder, a partire dai lavoratori e dai clienti. E, laddove non basta il calcolo economico, servono strumenti (norme, incentivi selettivi) in grado di favorire un equilibrio corretto.

Se una banca come Unicredit presenta un piano che aggiunge ‘nuove eccedenze’, 6000 solo in Italia, rispetto alle ‘eccedenze’ già smaltite con il piano precedente, a fronte di utili che continuano a crescere e di dividendi destinati a salire, ci sono una serie di considerazioni da fare. Fatta la premessa che la trasformazione tecnologica ha cambiato le esigenze rispetto alla forza lavoro, e che questo fattore non può non essere considerato, restano una serie di domande: produrre pre-pensionati e disoccupati, oltre a un beneficio sul conto economico della banca, comporta un costo per il sistema? Chi lo paga? E, cambiando angolazione, può portare benefici a lungo una strategia sbilanciata sul taglio dei costi? Dovrebbero rispondere, seriamente, sia il governo (sempre con la politica industriale) sia il management.

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