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Coronavirus, per il calcio vengono prima gli incassi

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Il calcio si ferma, causa Coronavirus. Anzi, rinvia per non perdere incassi e, si dice, per evitare un danno d’immagine in tutto il mondo. Cinque partite, e tra queste la sfida scudetto Juve-Inter, spostate al 13 maggio. Torino, Milano, Udine, Parma, Reggio Emilia sono città in cui non si può giocare a porte aperte. E, allora, meglio chiudere in attesa di tempi migliori.

Le conseguenze sul piano sportivo sono indiscutibili: campionato falsato, con una classifica che sarà sempre virtuale. Le conseguenze sul piano della percezione condivisa dell’emergenza sono ancora peggiori. Passa un’altra volta il messaggio della sospensione, questa volta aggravata dalla scelta ‘a fini di lucro’.

Difficile che si possa sperare di gestire il panico generalizzato continuando a mettere insieme decisioni improvvisate. Prima di pensare all’immagine sarebbe il caso di pensare alla sostanza, fatta di una paralisi che continua a produrre danni. E di una lista di responsabilità che continua ad allungarsi. A quelle del governo, a quelle di una politica incapace di dialogare nonostante le circostanze, si aggiunge una classe dirigente sportiva capace solo di calcolare interessi, e profitti, di parte.

Anche perché, se proprio si vuole pensare all’immagine, dopo il Governatore con la mascherina e il Governatore dei topi, non si sentiva il bisogno dei presidenti attaccati al portafoglio. La sensazione che prevale, ancora una volta, è che si prendano decisioni opportunistiche. Nonostante la situazione richieda lo sforzo di essere più trasparenti possibile. In politica e anche nel calcio.

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