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La foto della Corte dei Conti alle partecipate locali

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Ecco la holding pubblica locale, fotografata dalla Corte dei Conti nel suo osservatorio sulle partecipate di Regioni, Province e Comuni. Si mettono insieme i risultati economici di circa 4.300 società, degli oltre 7.000 organismi economici. Con soci per lo più dormienti e pasticcioni, con qualche punta di diamante come le farmacie comunali, e una montagna di personale poco produttivo. Articolo di Alberto Sisto apparso sul numero di Fortune Italia di febbraio 2020.

 

“L’Italia è il paese del socialismo reale”, diceva l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga: un miscuglio di stato assistenziale, di politica consociativa, di intrecci di potere giudiziari e interessi industriali. L’universo delle circa 7.500 partecipate pubbliche locali, con i loro 300.00 dipendenti e 91 mld di debito è forse la dimostrazione più precisa di quella sintesi. Comuni, Province e Regioni, con le loro appendici imprenditoriali, si sono impegnati in ogni genere di attività investendo risorse ingentissime spesso con l’illusione di lenire, con i fondi pubblici, il più duro mercato attenuando forse i costi dei servizi ai cittadini, ma al più riuscendo solo ad alterare la concorrenza. È questo l’umore di fondo che si respira leggendo le 350 pagine della Relazione della Corte dei Conti sugli organismi partecipati dagli enti territoriali e dagli enti sanitari. La Relazione è la fotografia frutto del passaggio dall’informe universo delle partecipate pubbliche locali di cui si parlava nelle varie edizioni della spending review di Carlo Cottarelli, all’applicazione del Tus, il Testo unico sulle società pubbliche del 2016 che impone a Comuni province e Regioni di fare un bilancio di gruppo che comprenda anche i conti delle loro società partecipate. Un obbligo a cui gli amministratori locali dovranno adeguarsi progressivamente e a cui la Corte dei Conti ha cominciato a pensare da tempo. Ed ora arriva la prima ricognizione di questo universo sconosciuto ai più. Si tratta di una prima rilevazione che fornirà in futuro lo stato di salute di questo gruppo diffuso e servirà a mettere gli amministratori locali e i cittadini di fronte agli effetti delle loro gestioni, anche perché come spiegano i magistrati contabili, profitti e perdite delle partecipazioni pubbliche locali si riflettono, nel bene e nel male, sui bilanci dei loro azionisti, Comuni Province e Regioni, che già da anni devono fare i conti con le ristrettezze finanziarie. E su quel groppone ci sono già 440 imprese con i conti in perenne rosso, almeno 4 bilanci in perdita sugli ultimi cinque, che hanno accumulato 3,7 mld di perdite, fra il 2013 e il 2017, il pulviscolo delle 898 imprese con fatturati inferiori ai 500.000 euro nel triennio e le 1.286 senza dipendenti o con un numero di addetti inferiore a quello degli amministratori. Ora l’osservatorio, con la sua banca dati ha cominciato a girare sia pure al prezzo di qualche lacuna. Così, mentre i dati sul tipo di partecipazioni detenute da Comuni Province e Regioni sono aggiornati al 30 novembre del 2019, l’analisi economica si ferma ai bilanci del 2017, nel tentativo di ricomprendere il maggior numero possibile di informazioni certe. Fornisce la prima immagine di quello che da lontano sembra solo un buco nero.

IL GRUPPO PUBBLICO LOCALE

 

L’insieme delle partecipazioni detenute da Comuni Province e Regioni ammonta a 7.485, imprese di varia natura: società per azioni, srl, cooperative, consorzi, aziende autonome, enti pubblici economici, società estere, ed altre forme giuridiche per lo più residui del passato. Oltre 1.300 sono inattive o in via di liquidazione. Il 60% delle partecipate locali, in misura totalitaria o maggioritaria, ad un ente locale. Ma è anche molto presente, 1.957 società, la formula della partecipazione mista con maggioranza affidata ai soci privati. Le società quotate sono 41, ma a cascata ne controllano altre 159. Queste, nell’analisi della Corte, ricevono un trattamento a sé perché il testo unico le esclude da “quelle che possano essere fatte oggetto di misure di razionalizzazione”. Solo 821 Comuni su 7.978 (10,29%) hanno dichiarato di non detenere azioni in alcun tipo di iniziativa economica. Si tratta in genere dei comuni più piccoli anche se ve ne sono una decina di media grandezza. Tuttavia su questi numeri i magistrati contabili non scommettono ipotizzando mancate dichiarazioni dei Comuni e possibili errori, così le dimensioni del gruppo pubblico locale potrebbero essere anche maggiori. La conglomerata degli enti locali ha 293.662 dipendenti, poco meno di un terzo lavorano in Emilia Romagna (51.048), Lombardia (44.266) e Lazio (oltre 32.885). Solo Molise e Basilicata non superano le 1.000 unità: rispettivamente 491 e 543 addetti. Pensata come una conglomerata l’insieme delle partecipazioni locali avrebbe una produzione di 79,645 mld, vicina al fatturato di Enel, e con un profitto di poco superiore ai 3,7 miliardi. Non essendoci un bilancio consolidato il valore si ottiene sottraendo dai 4,7 mld di utili denunciati nel 2017 dall’insieme delle imprese in nero i 1,1 mld di perdite di quelle con i conti in rosso.

SOCI IN SONNO

 

Non c’ero e se c’ero dormivo. È questa la percezione che i magistrati hanno ricavato circa le modalità di esercizio dei loro diritti di soci da parte degli amministratori locali. Il testo unico infatti prescrive agli amministratori pubblici di fare annualmente un rapporto di partecipazione: verificando l’utilità della partecipazione, l’andamento della gestione, l’economicità delle scelte, la congruità della governance. Ma anche, se necessario, scrivere piani di ristrutturazione, semplificazione societaria e/o dismissione. Tutto rimasto lettera morta: “Plurime sono le indicazioni circa la sostanziale mancata attuazione dei principi informatori dei diversi interventi normativi posti in essere dal legislatore: ciò in ragione della resistenza degli enti a procedere ad una compiuta verifica circa la sussistenza dei presupposti per la detenzione di partecipazioni societarie ed a fornire adeguato supporto motivazionale alle proprie determinazioni”, la lapidaria conclusione della Corte. In Piemonte, Liguria e Calabria le valutazioni fatte dagli amministratori pubblici hanno privilegiato gli aspetti di congruità, rispetto alle finalità dell’ente pubblico, “mentre scarso o nessun valore sia stato assegnato al giudizio sulla convenienza economica e sulla sostenibilità finanziaria” di mantenere le attività portandole avanti attraverso società controllate. In Molise hanno brillato per “il mancato esercizio dei poteri di governance da parte dell’amministrazione regionale” e per i “gravi deficit informativi”. Ancora la Liguria, che creando ha creato una propria finanziaria per le partecipazioni ma con il risultato di “rendere meno agevole il monitoraggio e i controlli”. Una segnalazione anche per Comune di Napoli e Regione Campania che pur avendo attivato una gestione attiva del proprio gruppo di partecipate ha dovuto fare i conti con “il mancato conseguimento delle reali efficienze alle quali si mirava”. All’indice della Corte sono finiti anche i complessi rapporti instauratisi in Basilicata tra il sistema delle partecipazioni indirette detenute tramite Sviluppo Basilicata spa e il Fondo regionale Venture Capital. La prima si è di fatto trasformata in una sorta di ufficiale pagatore dandosi un ruolo “limitato alla mera erogazione di risorse”. Anche molti enti della Regione Umbria sembrano preferire la comoda situazione del socio dormiente: visto che molti enti nei loro rapporti si sono arrovellati sulla questione, dismettere o non dismettere, senza tuttavia preoccuparsi “di analizzare ed eventualmente contenere i costi delle partecipate”. Nel dubbio non hanno rinunciato a nulla. Non tutti i soci pubblici sono dormienti. Alcune Regioni, segnala la Corte, si sono distinte per aver saputo attivare e utilizzare appropriati strumenti di governance delle proprie partecipazioni. Come le indicazioni e le linee guida adottate, nel corso del 2018, dalla Regione Trentino-Alto Adige che hanno suscitato l’interesse dei magistrati contabili, per aver introdotto regole sia “per la costituzione sia per i compensi degli organi amministrativi delle società di capitali oltre alle linee guida per le società in house e gli atti di indirizzo per gli altri organismi partecipati”. Soddisfacenti, su tale versante, sono stati ritenuti anche i risultati conseguiti dalla Regione Veneto che ha istituito la Direzione Partecipazioni societarie ed enti regionali conseguendo un “significativo rafforzamento della governance della Regione nei confronti delle proprie società ed enti partecipati”.

 

GESTIONI ANTIECONOMICHE

 

Se i soci dormono, gli affari non prosperano. E quindi con azionisti disattenti i risultati delle partecipate di Comuni, Province e Regioni non possono brillare. È vero che l’insieme delle società pubbliche locali fa più utili che perdite. Ma è altrettanto vero che quando le analisi dei magistrati contabili scendono nel dettaglio emerge la sciatteria del manico: “Milletrecentosessantasette società degli enti territoriali, pari al 27% del totale, versa in condizioni tali da richiedere interventi di razionalizzazione da parte delle amministrazioni socie” riassume la relazione. E nelle società interamente controllate dal solo ente pubblico le cose vanno ancora peggio, come descrivono alcune pennellate dei magistrati contabili. Nei servizi “solo il 42% delle imprese è totalmente pubblico, ma occupa circa due terzi degli addetti”; “sono più frequenti situazioni di prevalenza delle perdite di esercizio”; “si rileva anche la preminenza dei crediti verso soci sul totale, pur in presenza di un rilevante indebitamento verso terzi”. Che si indebitino al posto dei loro azionisti? La corte si limita a constatare che “tali situazioni appaiono giustificabili in caso di risultati di esercizio negativi (da cui scaturiscono oneri per copertura perdite o per ricapitalizzazioni), mentre risultano poco comprensibili se associate a bilanci in utile”. L’esame sulle 4.326 società, riassume la Corte, dimostra a livello aggregato, la posizione finanziaria netta è negativa “in tutte le Regioni, ad eccezione della Calabria e, per le partecipazioni pubbliche totalitarie, anche della Sicilia. Nel complesso, i debiti delle società partecipate ammontano a 91,9 mld” a fronte di 41,7 mld di crediti. Quando poi si passa dalla gestione finanziaria alla gestione caratteristica si fanno altre scoperte. L’incidenza di tutti i pagamenti “che ogni ente proprietario gira alla controllata, (oneri per i contratti di servizio, versamenti a ripiano di perdite trasferimenti a vario titolo e aumenti di capitale, ndr) se rapportata al valore della produzione sfiora o supera il 100% in Campania, Molise e Lazio. Tali evidenze si accentuano per le società totalmente pubbliche ove l’incidenza percentuale, negli enti delle stesse Regioni supera il 100% in misura ancor più consistente. Dall’analisi dei dati di dettaglio, poi i magistrati contabili hanno trovato “molti casi (72 sui 640 esaminati) di eccedenza delle erogazioni rispetto al valore della produzione, maggiorato dell’imposta sul valore aggiunto”, come a dire che gli enti locali hanno scelto di pagare più del prezzo richiesto. Le uniche società largamente e quasi integralmente in utile sono le farmacie comunali, con poche ma significative eccezioni, come Farmacap di Roma capitale andata per aria alcuni anni fa. Da aziende così qualsiasi imprenditore cercherebbe di prendere le distanze. Ma non è così nel limbo delle partecipazioni locali. Nelle comunicazioni annuali sulla revisione delle partecipazioni e sulle intenzioni circa le scelte per le situazioni più critiche, la gran parte (il 71% dei Comuni) ha detto che manterrà la partecipazione, con o senza interventi di razionalizzazione, un percentuale che scende al 45 e al 43% per le Regioni e le Province. Tutto questo potrebbe anche bastare ma c’è dell’altro. I manager e i gli azionisti delle partecipazioni locali sono affamati come qualsiasi imprenditore e così cercano di non lasciarsi sfuggire alcun affare. Comuni, Province e Regioni non hanno dubbi dovendo acquistare un servizio come si fa a non prenderlo in casa. Alla Corte non è rimasto che registrare “la prevalenza degli affidamenti diretti: nonostante la rigidità dei presupposti che consentono la deroga, su un totale di 14.626 affidamenti, le gare sono soltanto 878 e gli affidamenti a società mista, con gara a doppio oggetto, 178. Speculari le risultanze per organismi non societari”, ovvero le aziende autonome.

 

 

Articolo di Alberto Sisto apparso sul numero di Fortune Italia di febbraio 2020.

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