Negoziare, trattare fino in fondo per difendere una posizione. E farlo fino a quando è possibile tirare la corda, anche correndo il rischio che si rompa. Qualsiasi comunità democratica si muove in questo modo, soprattutto quando la decisione da prendere è cruciale per il futuro.
Queste ore sono, per l’Europa, un passaggio fondamentale. Definire la struttura del Recovery Fund, pensata come l’arma principale per fronteggiare la crisi innescata dal Coronavirus, non è solo il risultato di una importante decisione politica. È il passaggio, stretto, che separa un prima e un dopo. Può uscirne una comunità forte, capace di fare cose mai fatte finora. Oppure, può uscirne una comunità definitivamente ridimensionata.
La corda tesa può tenere e diventare un appiglio sicuro a cui aggrapparsi. Oppure, può rompersi, lasciando definitivamente soli gli Stati che quella corda l’hanno caparbiamente voluta e con pazienza intrecciata.
La partita che stanno giocando i Paesi ‘frugali’, con i veti e i ‘no’ reiterati dalla capofila Olanda, sono una parte del problema. Dietro, c’è altro. C’è un’Europa che non serve a nessuno.
Un’Europa che non sa decidere, che dilata i suoi tempi di decisione quando il tempo a disposizione è già ampiamente scaduto, rischia di mortificate definitivamente le ragioni per cui è nata e tutte le enormi potenzialità in cui crede chi continua a sostenere che per un futuro migliore non ci sia altra strada se non quella di costruire un’Europa forte.
Il nazionalismo e il populismo, che si alimentano a vicenda, sono l’approdo naturale del fallimento dell’Europa. E la responsabilità di un nuovo fallimento non potrebbe essere addossata solo alla pur miope intransigenza di un veto o di un ‘no’.
Perché un’Europa che non riesce a neutralizzare il nazionalismo e il populismo, in un passaggio come quello che stiamo vivendo, è un’Europa che abdica, che si arrende, che si consegna all’irrilevanza.