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Il lusso sta cambiando modo di raccontarsi ai giovani

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Da Luxury and Finance – Che i brand del lusso debbano cambiare marcia nel raccontarsi ai giovani è necessario. Si tratta di una consapevolezza assunta da tempo. Sul come, c’è qualche incertezza in più. E il Covid-19, oltre a confondere di più le cose, potrebbe aver offerto una nuova occasione. Erica Corbellini, professoressa di Fashion & luxury management in Sda Bocconi, osserva che in realtà “alcuni brand sono stati molto dinamici nel modo di coinvolgere i giovani: basti pensare ai loro account su Tik Tok e le challenges che hanno lanciato recentemente”.

 

Senza contare poi quanti “hanno saputo sfruttare il periodo di lockdown per trasformare il loro Instagram. Un esempio eccellente Bottega Recidency: Bottega Veneta è stato uno dei tanti marchi che ha comunicato in modo corretto rispetto all’esigenza dei ragazzi di capire meglio questo mondo dal di dentro. Se vediamo come comunica Gucci, tutto quello che fa è estremamente coinvolgente rispetto alle nuove generazioni. Forse più che prima c’è un ampio divario tra chi abbraccia questi nuovi social, anche con un linguaggio orientato a quelle che sono le sue specificità, e chi invece è ancora molto autoriferito, con la bella foto, il bel prodotto, l’hashtag istituzionale. Vedo tanti marchi della moda e del lusso che nella loro mania di controllo rallentano il processo. Per una story non si possono aspettare 24 ore che l’headquarter, magari basato a New York, la approvi. E soprattutto bisogna accettare quel minimo di imperfezione che poi la rende autentica”.

 

Insomma, “oggi c’è un forte divario tra i marchi che l’hanno capito, e quindi stanno comunicando in una maniera customer oriented, Generazion Z oriented, a marchi che sono ancora innamorati del percepito della propria immagine e non capiscono che oggi il punto di forza è avere questa immagine interpretata da quelli che possono essere i fruitori”. Corbellini, che tornerà a presentare a breve una nuova ricerca insieme a Salesforce, dopo la più recente dal titolo ‘Cosa chiedono Millennial e Gen Z ai brand del lusso e della moda’, anticipa anche che “Sda Bocconi sta svolgendo un’indagine su come il nation branding sarà percepito in seguito alla pandemia, associandolo al valore dell’Italian lifestyle”.

 

In corso di svolgimento 400 interviste a ragazzi e ragazze dal profilo internazionale. Il tema è di grande rilevanza: “credo che il problema dello stile di vita italiano sia che, come tutto quello che è esperienziale, se non viene vissuto fino in fondo non viene capito. Non c’è nessun dubbio che chiunque venga in Italia apprezzi lo stile di vita italiano che è basato su un modello di inclusività: anche la risposta che ha dato l’Italia durante il lockdown è stata di attenzione anche ai più deboli, di attenzione alla comunità”. Il tema, dunque è l’esperienza che il solo virtuale non ci permette di vivere. “Da questo punto di vista – sottolinea Corbellini – credo che sia necessario fare un grande sforzo: l’Italia è fatta del suo paesaggio, della sua cultura insieme alle tante persone che le danno vita. Quindi credo che da questo punto di vista bisognerebbe andare nella direzione di quello che io chiamo ‘proselitismo culturale’: le regioni e i comuni dovrebbero mettere a fuoco un turismo basato sull’education“.

 

Che prevede, tra le mete turistiche anche la possibilità, ad esempio, di visitare i distretti produttivi, di “creare un collegamento tra una dimensione più di entertainment a una dimensione di educazione rispetto a quello che è tipico dell’Italia. Questo è un vantaggio competitivo che nessuno ci potrebbe rubare. Lvmh aveva cominciato con Les Journees Particuliers aprendo le fabbriche alle persone: ha dovuto far tutte queste aperture in Italia, perché è qui che produce” chiosa la professoressa. Ma l’Italia in questo mostra il fianco, almeno nella moda. Non in quello dei vini, dove le cantine aperte hanno contribuito a fare conoscere prodotti di qualità. Nel fashion “volendo, le modalità ci sarebbero: si tratta come sempre di metterle a terra. E in Italia nella execution siamo sempre un po’ carenti”.

 

“Anche oggi, questi grandi marchi del lusso non permettono che si facciano foto all’interno dei negozi, perché si potrebbero magari copiare la vetrina e l’allestimento. Poi però sono i medesimi che su Instagram ci bombardano di post sui loro prodotti indossati. C’è una contraddizione. Sono gli stessi marchi che dicono che vogliono parlare alla generation Z e poi quando vengono invitati in università non vengono perché sono reticenti rispetto a quelle che potrebbero essere le domande dei ragazzi. Ripeto: non sono tutti così, ma spesso c’è questa contraddizione. Sono quegli stessi marchi che pagano migliaia di euro per una influencer e poi magari non danno neanche 500 euro al mese allo stagista che sa tre lingue, che è un talento. Esiste proprio ancora una contraddizione nei comportamenti”.

 

Ma come far vivere l’esperienza all’interno del negozio? “Con servizi e prodotti speciali” spiega Corbellini, chiarendo che “in questo senso, alcuni marchi si stanno muovendo. Sicuramente i giovani chiedono prodotti customizzati, con un tocco individuale, come possono essere le iniziali sulla borsa dipinte a mano, oppure una giacca con un ricamo unico”. Situazioni, che, per altro, mettono insieme “industria e artigianato, industria e sartoria, industria e arte: esperienze che possono essere fruibili solo in negozio. Magari il prodotto è già acquistato e lo riporto per un trattamento speciale, oppure un prodotto nuovo che online e standardizzato se lo porto in negozio può avere quel tocco in più. Si può lavorare su dare servizi speciali rispetto a un prodotto, o attivare edizioni limitate in collaborazione con artisti o con altri brand che magari sono disponibili solo in negozio, anzi solo in quel negozio specifico”. Insomma, la moda deve essere coerente ma mai standardizzata e il negozio deve essere parte di un turismo esperienziale. “La grande sfida è informare in maniera emozionale e non in maniera troppo didattica e didascalica. Non si deve essere noiosi quando si fa storytelling di prodotto, ma in tutti i casi bisogna farne molto di più. Molte aziende hanno fatto tanto storytelling di marca e poco di prodotto. In questo modo certo che si ricrea la volontà di andare in negozio. Poi se si converte in negozio oppure online, ma non è importante”.

 

Ciò che sta cambiando è anche il ruolo dell’influencer marketing: “Fino ad ora le influencer della moda sono state delle posers, delle oufitters, non hanno mai elaborato sulle caratteristiche del prodotto”. Nel beauty invece sì: “Sono due mondi completamente diversi” chiosa la docente, che si domanda: “Perché una influencer della moda non può dire, ad esempio, ‘la borsa sta bene in questo tipo di contesto?’ Non c’è mai una volta che la aprano e facciano vedere il numero di tasche all’interno, le cuciture, o dicano se è confortevole o meno quando la porto sulle spalle”. Non solo: “Non ci sono influencer legati al mondo dell’immagine che parlino di sostenibilità”, cioè che spieghino di avere “deciso di promuovere un marchio perché ha una filiera trasparente e sostenibile. Questo non accade mai”.

 

E invece, nota Corbellini, “siamo pronti per una nuova generazione di influencer che siano più esperte rispetto ai contenuti di prodotto e capaci di veicolarli. Saranno necessariamente micro-influencer, da 15-50-100mila follower, perché devono essere persone che hanno una reale affinità rispetto al prodotto di cui stanno parlano, amano quello stile, una specifica categoria merceologica e dunque risultano più credibili”. Per altro, dalla ricerca presentata “è emerso come le nuove generazioni seguano sì le top celeb influencer, ma per un aspetto di gossip e lifestyle. Anche perché ogni giorno fanno almeno dieci post con prodotti diversi, passano da uno stile all’altro. Non elaborano mai, perché non hanno un attaccamento a uno stile o a un brand e quindi è chiaro che il prodotto diventa periferico. Invece siamo pronti a una nuova generazione di influencer che porti l’education sui social media”. Infine, “mai come i ragazzi che appartengono alla Gen Z vogliono che i marchi si esprimano: vedi cosa è successo con Black lives matters, con Lgtb, community con cui condividono un punto di vista fortissimo. Prima le marche non potevano dire nulla. Adesso i giovani pretendono che i marchi prendano posizione e sempre di più lo chiederanno alle ambasciatrici”.

 

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