L’abitudine alle situazioni assurde rischia di diventare assuefazione. La lunga emergenza sanitaria legata al Coronavirus ci ha imposto sofferenze, problemi e restrizioni che mai avremmo immaginato. Ora si aggiunge anche la crisi di governo (che fino a quando il premier non si dimette ancora non c’è) più insensata, e meno opportuna, che si potesse prevedere. Una crisi che è soprattutto una crisi di leadership.
L’ostinazione con cui Matteo Renzi ha scelto di condurre il gioco, costringendo il Paese all’ennesimo passaggio imprevedibile, deve avere una motivazione migliore di quella che sembra a tutti evidente questa sera: un protagonismo senza limiti che lo ha spinto a perdere la connessione con la realtà.
La presunta leadership del premier Giuseppe Conte, frutto più della narrazione che delle qualità effettivamente dimostrate, esce non solo ridimensionata ma forse definitivamente compromessa. Avrebbe dovuto, se ne avesse avuto la forza, guidare il governo tenendo in equilibrio una maggioranza difficile ma sostenuta dalla convenienza di tutti a scongiurare in ogni modo la fine della legislatura. Che comunque difficilmente finirà.
Il Pd di Nicola Zingaretti ha tentato la strada della mediazione senza successo, pagando l’immobilismo di mesi e la scarsa propensione all’esercizio della leadership del suo segretario. È un fatto, visto l’epilogo, che il partito sia rimasto schiacciato tra i veti grillini e le scorribande renziane.
La crisi d’identità dei Cinquestelle, conclamata ormai da troppo tempo, ha reso quello che è stato un movimento fondato sul consenso un contenitore di parlamentari legati soprattutto alla poltrona e alle bandiere ideologiche.
Il quadro, in estrema sintesi, è quello di una classe dirigente senza leader e senza più legame con la realtà. Che si muove, con crescente imbarazzante goffaggine, quando c’è un Paese schiacciato tra l’urgenza di sconfiggere la crisi sanitaria con la campagna vaccinale e quella di rimettere in moto un Paese stremato con le risorse del Recovery Fund.
