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Il ruolo del Terzo Settore nel welfare ‘integrato’

welfare terzo settore

Pubblico e privato non bastano per definire gli estremi entro cui si sviluppa il sistema del welfare integrato. La protezione sociale ha sempre più bisogno di un “terzo polo”, quello che viene indicato come il “privato sociale”. O se preferite il Terzo Settore (360mila soggetti giuridici diversi tra fondazioni, associazioni e cooperative sociali, circa 800mila dipendenti, oltre 6 milioni di volontari). Quel complesso sistema capace di formulare e organizzare risposte “in termini di cura dei bisogni dove non arriva il pubblico e dove non ottiene risposta la domanda pagante dei cittadini”.

 

Parola di Paolo Venturi, docente di imprenditorialità sociale e innovazione sociale presso l’Università di Bologna e direttore generale di Aiccon, l’Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit, il Centro Studi promosso dall’Università di Bologna, dall’Alleanza delle Cooperative Italiane e da numerose realtà, pubbliche e private, operanti nell’ambito dell’Economia sociale. Uno dei più dinamici osservatori di questo mondo ormai imprescindibile nell’evoluzione del “nuovo welfare” italiano. “Lo si è capito bene in questa crisi sanitaria e sociale quanto sia essenziale il ruolo sviluppato dal Terzo settore – spiega Venturi – una vera e propria infrastruttura del Paese, snodo essenziale di quei servizi che rendono all’Italia, checché se ne pensi, quella qualità della vita che ci rende molto più resilienti di altre società e di altri Paesi”.

Talmente essenziale, il Terzo settore, che lo si attende alla prova anche nello sviluppo del welfare aziendale. Anche se ancora sembra avere un gap culturale e di linguaggio nel rapporto con il mondo profit…

 

“Sì e no. Diciamo innanzitutto che il Terzo settore è una realtà eterogenea che comprende soggetti di varia natura, solo una parte ha sviluppato una sensibilità imprenditoriale. Ma tutti finalizzati a perseguire l’interesse generale delle comunità”.

Ma il dialogo con le imprese non è sempre agevole. C’è una cultura antagonista rispetto al mondo del profitto? Una cultura anti-imprenditoriale?

 

“Direi che deve essere superata una cultura a-imprenditoriale. Più che contro, alcune parti del Terzo settore, sono privati dall’abitudine di dialogare con il sistema imprenditoriale, avendo seguito lo sviluppo guidato dalla Pubblica Amministrazione. Il vero gap è l’educazione all’imprenditorialità. Molte realtà del Terzo settore si scoprono “isomorfe” rispetto ai soggetti pubblici con i quali hanno sviluppato l’abitudine della relazione. Ma qualcosa si sta muovendo. Sempre più spesso assistiamo a processi di esternalizzazione di servizi dalla Pa e un ingresso più deciso nel sistema economico”.

Lo sviluppo del welfare aziendale è una direttrice di questa evoluzione?

 

“Certo. Le imprese vedono nel welfare aziendale uno strumento essenziale per costruire e rafforzare la relazione con le risorse umane, oltre che una modalità per migliorare la produttività, insieme alla motivazione. Questo investimento nella relazione con le persone non può che favorire il contributo tipico della cooperazione sociale e dei suoi valori e il suo incrocio con le esigenze dell’impresa privata nei confronti dei propri collaboratori”.

Nello sviluppo del welfare nasce una nuova alleanza tra impresa e Terzo settore?

 

“È in corso una lunga trasformazione sia delle realtà d’impresa, sia delle realtà della cooperazione sociale. Le imprese si scoprono sempre più come organizzazioni che generano soprattutto valore aggiunto, non solo l’ottimizzazione alla produzione di profitto. D’altro canto anche il mondo della cooperazione sociale ha fatto tanta strada dalle prime esperienze avviate dal dottor Basaglia, a Trieste, all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso”.

Che cosa serve al Terzo settore per compiere questa evoluzione?

 

“Deve far leva sulle motivazioni intrinseche che lo rendono protagonista del cambiamento della società. Deve ripensare i propri modelli organizzativi, quindi deve aprirsi per superare gli stilemi acquisiti nella relazione con la Pubblica Amministrazione dove ancora vigono regole gerarchiche e ministeriali che non sono spendibili all’esterno. Deve ridare ruolo alla comunità territoriale, che spesso è diventata solo utente dei servizi, mentre ha la sua forza nella co-produzione delle attività”.

Ecco, quanto conta il territorio nella prospettiva del “nuovo Welfare”?

Tantissimo. La sfida è il territorio. Il futuro del welfare sta nella convergenza dei soggetti che concorrono a proporre prestazioni e servizi di rilevanza sociale. La competizione verrà vinta da chi sa condividere di più e meglio. Il nuovo universalismo del welfare si recupera sul territorio, integrando le attività delle imprese profit (dalle banche alle assicurazioni, fino agli intermediari, i provider), quelle delle imprese non profit e quelle della Pa”.

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