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Leadership, l’abilità di ripensare e disimparare

Cosa rende le persone e le organizzazioni di successo adesso e nel futuro che si sta delineando?

Adam Grant nel suo ultimo libro “Think Again” sottolinea che lo skill fondamentale per alimentare la crescita personale “non è sapere quello che già sai ma sapere quello che non sai”.

È unanimemente riconosciuto che tanto più intelligente sei, tanto più puoi risolvere problemi complessi, anche molto velocemente. L’intelligenza è tradizionalmente vista come quella abilità di pensare e imparare. Ma in un mondo turbolento come quello in cui viviamo un altro “bagaglio” di skill cognitivi potrebbe essere più efficace: l’abilità di ri-pensare e di dis-imparare. Tutti abbiamo una sorta di “dittatore interno”, una parte di noi stessi che si impegna a proteggere il nostro credo e i nostri punti di vista.

Dobbiamo impegnarci molto per gestire questo “dittatore”, mettere in discussione le nostre ipotesi, le nostre convinzioni, ed essere aperti a ripensare quello che pensiamo di sapere. E naturalmente aiutare gli altri, i nostri collaboratori, a fare lo stesso.

Non cambiamo idea perché cambiare idea è faticoso, ma non solo. Non cambiamo idea perché pensiamo che voglia dire riconoscere di aver sbagliato, e questo aggiunge un secondo livello di fatica – senso di colpa, inadeguatezza – al fatto di dover rivedere il proprio punto di vista.

Gestire, possibilmente riuscire ad annullare il nostro “dittatore interno”, ci permetterà di continuare a migliorare, crescere e imparare per il resto della nostra vita.

Ma perché siamo biologicamente e culturalmente inclini a mantenere le nostre posizioni?

Come riporta un noto neurologo: “Perché la maggior parte dei segnali non viaggia dagli occhi verso il cervello: viaggia in senso opposto, dal cervello verso gli occhi. Quello che succede è che il cervello si aspetta di vedere qualcosa, sulla base di quanto è successo prima e di quanto sa. Elabora un’immagine di quanto prevede che gli occhi debbano vedere. (…) Dagli occhi verso il cervello viaggia solo la notizia di eventuali discrepanze rispetto a quanto il cervello si attende”.

In pratica, andiamo per il mondo guardando le cose attraverso il filtro di ciò che ci aspettiamo di vedere, in cerca di continue conferme del fatto che abbiamo ragione – conferme che fanno risparmiare energia preziosa al nostro cervello – e solo in seconda battuta disponibili a ricevere segnali contrastanti e a cambiare sguardo.

Sì, si tratta proprio di cambiare sguardo – e vale anche per l’ascolto e più generalmente per la comprensione di ciò che abbiamo intorno – perché per natura privilegiamo la coerenza e le conferme del già noto, che ci fanno sentire bene e al sicuro. Quindi biologicamente non siamo inclini a cercare segnali che contraddicano la nostra immagine delle cose, ed è così che riusciamo a essere veloci e capaci di gestire enormi masse di informazioni.

Dal punto di vista culturale si potrebbero scrivere libri interi su come la nostra cultura tratta l’errore. La convinzione che sbagliare sia una colpa nasce da molto lontano ed è difficile da sradicare, perché non è espressa in modo esplicito ma sottile, più nelle conseguenze che nelle cause, sin da quando andiamo a scuola.

Quanti sono, però, i motivi per cui sbagliamo, quante storie diverse (e conseguenze variegate) vi sono dietro al fatto di contraddirsi o di cambiare idea? L’errore e il cambio di opinione sono due elementi distinti all’interno di un ampio spettro di possibilità che la specie umana ha, e che si è rivelata la strada più veloce ed efficace verso l’apprendimento. Ma non si tratta solo di questo. Sarebbe riduttivo direi che saper cambiare idea è importante perché consente di apprendere: sarebbe come al solito ridurre tutto a mera causalità.

Proprio per la ricchezza dei nostri pensieri, per l’infinita varietà di sfumature che siamo capaci di vedere nel mondo, non possiamo fare altro che modificare continuamente le nostre idee, arricchendole con quelle di chi non è d’accordo con noi, perché del mondo sta vedendo un altro angolo (chi non ricorda “L’attimo fuggente”, quando il prof invita i ragazzi a salire sulle scrivanie?).

Se il cambiamento fosse meno spaventoso, se il rischio non apparisse così grande, molte più cose potrebbero essere vissute.

Uno dei capitoli del libro di Grant recita così: “La gioia di avere torto: il brivido di non credere a tutto ciò che pensi”. Non è che poi qualcosa valga meno se la tratti con più leggerezza: alla fine ogni pensiero merita di essere onorato e, quando non serve più, lasciato libero di andare via.

Tanto più brillanti le persone sono o pensano di essere, tanto è più difficile che vedano i propri limiti e le proprie debolezze. Essere abili nel pensare può rendere molto difficile il ri-pensare.

I leader hanno la responsabilità di spingere, sostenere un ambiente che enfatizza l’apprendimento più che le performance di breve termine e oggi più che mai questa attitudine fa e farà fare la differenza alle società che riusciranno ad instaurare una cultura di continuo apprendimento. L’obiettivo deve essere quello di costruire una organizzazione dove il “ripensare” diventa strutturale.

Tre sono i passi da seguire per creare questo tipo di cultura:

Diffidare dalle best practices: possono scoraggiarci a mettere in discussione ciò che siamo convinti funzioni. Quindi vanno cercate le “better practices”, cioè le migliori, non l’ottimo; Costruire un ambiente di “sicurezza psicologica” dove le risorse si sentano a loro agio, dare feedback, mettere in discussione, dare voce a differenti prospettive; Gestire, strutturare e consolidare il processo attraverso il quale le differenti opzioni sono dibattute, invece di premiare solo il raggiungimento degli obiettivi;

Mentre combattiamo la pandemia, il cambiamento del clima, trasformiamo le nostre organizzazioni con l’implementazione del digital e dell’AI, o lavoriamo per guarire una società fortemente polarizzata in cui le persone sono ancorate alle loro idee, il tempo che stiamo vivendo richiede fortemente un grande flessibilità mentale e ora più che mai abbiamo bisogno di mettere in discussione le nostre idee, i nostri credo e le nostre, qualche volta, presunte conoscenze.

Buoni leader inducono nuovi pensieri, ma grandi leader inducono nuovi modi di pensare, ingaggiano i loro critici e questo li rende più forti. Infatti, si impara molto di più dalle persone che sfidano i nostri pensieri e le nostre convenzioni rispetto a quelle che affermano e sostengono le nostre idee.

Numerose ricerche hanno dimostrato che quando i leader esprimono dubbi, diventano molto più persuasivi. Quando qualcuno di autorevole esprime dubbi sorprende le persone, e quindi attrae più attenzione sulla sostanza di quello che si sta dibattendo.

Focalizzarsi sui risultati potrebbe essere efficace per il raggiungimento di obiettivi a breve termine, ma può essere un ostacolo all’apprendimento di lungo termine e quindi alla crescita della organizzazione.

I leader più efficaci hanno sia una grande fiducia in sé stessi che grande umiltà. Nonostante siano consapevoli dei propri punti di forza sono anche ben consci delle proprie debolezze. Sanno che hanno bisogno di riconoscere e trascendere i loro limiti se vogliono spingersi verso la grandezza.

Se c’è un tempo in cui il passato non può predire il futuro, bene questo tempo è ora: in questo mondo che cambia a velocità mai viste prima, dobbiamo impiegare molto più tempo nel ripensare rispetto a quello che impieghiamo a pensare.

*Gianluca Zanini è partner di Excellence Consulting

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