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Welfare e smart working, il lungo cammino verso il ‘new normal’

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Lavoro agile e welfare aziendale. Sono due elementi destinati a incrociarsi sempre più spesso nel corso di questa lunga transizione verso il “new normal”. Agile, remoto, smart: il nuovo modo di lavorare fuori dall’ufficio ha bisogno di nuove norme e di nuove esperienze, oltre che di un aggettivo certo che lo qualifichi. L’avvocato Pasquale Dui è professore di diritto del lavoro nell’Università Milano Bicocca e sul lavoro agile ha effettuato studi e ricerche.

Ha affrontato il tema soprattutto nelle questioni più delicate, ad esempio in merito alla tutela della salute dei lavoratori, del diritto alla disconnessione e della collocazione temporale dell’orario di lavoro, tra la sede dell’azienda e la propria abitazione, poi trasfuse in articoli tecnici e giuridici su svariate riviste di settore e sul Sole 24 Ore, del quale è collaboratore fisso. Recentemente, con la psicologa Monica Bormetti e con il dottor Giovanni Scansani, ha dato vita a un progetto di formazione e aggiornamento sulle applicazioni ed interconnessioni tra smart working e welfare aziendale, denominato e conosciuto come “Smart&Welfare”.

In attesa di una nuova norma sullo smart working, come si governa questa transizione? È un laboratorio o una giungla?

Si è discusso molto già nello scorso anno, soprattutto dopo la pausa estiva e prima della pesante ricaduta autunnale, tutt’ora persistente, in merito ad una possibile ridefinizione delle regole legali e contrattuali sul lavoro agile, per veicolarlo verso un modello più parametrato alla struttura tecnica e giuridica di quello che dovrebbe definirsi smart working nel senso corretto del termine. Si è dibattuto, soprattutto tra i soggetti coinvolti, le parti sociali e il governo, sulla opportunità di tenere fermo l’impianto della legge n. 81 del 2017 che disciplina, appunto, il lavoro agile. Questa disciplina, che prevede molti punti fermi, è fondata sul principio della piena libertà della scelta di una prestazione in modalità remota o agile, appunto, la quale può avvenire esclusivamente sulla base di un accordo scritto, consensualmente. L’insorgere della emergenza sanitaria ha, di fatto, fortemente consigliato (nel pubblico impiego imposto) che il lavoro in tutta questa fase particolare sia attuato in modalità agile, per evidenti finalità di tutela della salute e contenimento delle infezioni. La transizione verso lo smart working inteso in senso proprio è attuata in via iniziale sulla base di una direttiva delle aziende, per tutte le attività che possono essere svolte in remoto, come il telelavoro, eliminando in questo modo la necessità di un accordo scritto sul punto, per esigenze di semplificazione. Di fatto succede che molte aziende regolino solo alcuni profili importanti del lavoro agile, quali: la tutela della salute dei lavoratori (attraverso protocolli generali e interventi nell’impresa), e le modalità della disconnessione e, conseguentemente, i limiti di orario e disponibilità. Per tutto il resto si applicano i protocolli emergenziali.

Smart working e welfare aziendale: lo smart working si riduce spesso a uno strumento per il work-life balance. Troppo poco?

Bisogna in effetti ammettere che, in questo periodo emergenziale, lo smart working si riduce ad una serie di benefici per i lavoratori che impattano, soprattutto, sul cosiddetto benessere individuale e su quello familiare, in base alla elementare constatazione della presenza in casa dei dipendenti, caratterizzata da una crescita del tempo passato con la famiglia, sia in termini di quantità, sia in termini di qualità dello stesso. Ciò è dovuto dal trasferimento all’ambito familiare dei tempi di viaggio e di pendolarismo indotti dalla permanenza in casa, che possono arrivare anche a una o più ore, a seconda delle circostanze concrete e della distanza dalla sede di lavoro. Dire che questo sia poca cosa è possibile, a mio parere, solo sulla base dell’insidia, sempre persistente, del prolungamento dei tempi di lavoro, seppure in casa, derivante da una normale abitudine spesso tipica dei lavoratori delle categorie e dei livelli di inquadramento medio-alto.

Le esigenze delle imprese e quelle dei lavoratori: c’è un benchmark cui riferirsi?

Le imprese, nell’ottica di una prestazione resa dai lavoratori senza un controllo diretto, continuo e, soprattutto, visivo, devono giocoforza attenuare il grado di verifica (quella lecita, si intende) sullo svolgimento e sulle modalità della prestazione, della quale potranno solo richiedere una finalizzazione in termini di risultato. In questo senso, le aziende dovrebbero riuscire a mantenere un minimo di controllo sulla prestazione e sui risultati, ma solo in termini di realizzazione degli stessi. Dal punto di vista dei lavoratori, tutto questo si può tradurre, nell’ambito di un circolo virtuoso e condiviso, in una maggiore responsabilizzazione sul risultato del proprio lavoro, che deve essere svolto senza direttive specifiche e temporalmente pressanti, ovvero in una modalità meno stressante. Il punto di equilibrio cui fare riferimento è dato dalla soddisfazione reciproca e contemporanea delle due parti del rapporto di lavoro, a completo beneficio di ciascuna di esse.

Quali aspetti caratterizzano le criticità di chi ormai deve (e dovrà) lavorare sempre più spesso da casa?

Il lavoro remoto, svolto in casa, si è tradotto, di fatto, in una forma di resistenza e adattamento alla grave crisi emergenziale e ha dato, spontaneamente, la possibilità di contemperare le contrapposte esigenze delle parti – aziende e lavoratori – in ordine ad una diversa modulazione della prestazione in linea con la continuità aziendale. Il ricorso obbligato o fortemente consigliato dalla decretazione della fase pandemica non ha dato il tempo di poter collaudare reciprocamente, tra lavoratori ed aziende, lo svolgimento del lavoro in remoto, generando qualche inconveniente di natura organizzativa e, spesso, micro-conflitti interni. Questo sta avvenendo sotto molti profili, ma su alcuni di questi può generare criticità. Faccio qualche esempio su punti nodali: l’equilibrio fra tempo di lavoro e di pausa o riposo; il vincolo del lavoro nell’abitazione e non in luoghi diversi, inidonei a garantire riservatezza; la pianificazione, laddove possibile, di una alternanza tra lavoro in remoto e in sede, per non perdere il contatto con la realtà aziendale; la possibile limitazione della flessibilità di orari ed equilibri casa-azienda, in casi di necessità di assistere familiari in difficoltà di salute; ultimo, ma non per importanza, il dilemma annoso sulle dotazioni e sugli strumenti ed apparecchi di lavoro, nella delicata questione in ordine alle relative forniture e manutenzioni. La domanda ineliminabile è: chi paga?

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