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Mourinho, come non si gestisce un gruppo di lavoro

Del risultato, 6 a 1, delle motivazioni tecniche e tattiche della clamorosa sconfitta della Roma in Norvegia, contro il Bodo Glimt, si devono occupare la stampa e i commentatori sportivi. Ma nelle scelte del tecnico Josè Mourinho ci sono tanti elementi che vanno oltre il calcio. C’è da chiedersi se la sua gestione del gruppo, una squadra di calcio che è un gruppo di lavoro, possa essere considerata la causa di una disfatta, che è insieme sportiva, umana e professionale. Per farlo, è necessario uscire dalle dinamiche del campo, dal modulo adottato, dallo svolgimento della partita.

Mourinho ha una leadership indiscutibile. L’ha dimostrata in una carriera decennale e la sta dimostrando anche nella sua esperienza romana. Un leader deve però innanzitutto costruire e gestire il suo team rendendo la propria leadership un valore aggiunto, un elemento che riesce a tirare fuori il meglio che sia possibile dalle persone che lavorano con lui e per lui. Vale per un allenatore di calcio, per un manager di un’azienda, per il direttore di una testata. Che si parli di giocatori, di altri manager o di una redazione non esiste altra formula vincente che il coinvolgimento e la condivisione degli obiettivi. Ma non bastano. Serve anche la consapevolezza delle proprie capacità e la possibilità di metterle al servizio del proprio gruppo di lavoro.

Chiunque abbia fatto uno sport di squadra, a qualsiasi livello, aggiunge un elemento che è peculiarmente sportivo. A prescindere dalle capacità tecniche e dalla forza di un giocatore, o si è parte di un gruppo o si resta fuori dal gruppo. E se si è dentro si riesce a dare il proprio contributo, quando serve e quando richiesto. Se ci si sente fuori, si diventa un corpo estraneo, e tale si resta anche quando sarebbe necessario partecipare.

Mourinho, da questo punto di vista, ha fatto scelte nette. Non solo. Le ha anche comunicate all’esterno con la stessa convinzione con cui le ha maturate. Dodici, tredici giocatori sono all’altezza della sua squadra, gli altri no. Una parte del gruppo è con lui, dell’altra parte farebbe volentieri a meno. È una gestione che difficilmente può portare a conseguenze diverse da quelle, catastrofiche sul piano sportivo, della serata norvegese.

Ma il tema è più largo. Qualunque persona abbia un ruolo di leadership vorrebbe costruire il suo team, selezionando il meglio e potendo contare sul meglio. Questo, però, non è quasi mai possibile. In nessun ambito. Costruire una linea di management perfetta, così come una redazione perfetta, è un’esercizio quasi sempre velleitario. Per questo il buon amministratore delegato e il buon direttore sono capaci di valorizzare il materiale umano che hanno a disposizione.

I risultati, spesso, dipendono proprio da questa capacità. Fuori e dentro il campo di calcio. Mourinho ha scelto una strada diversa, evidentemente quella che ritiene più efficace per ottenere dalla società gli uomini che ritiene necessari. Intanto, però, ha dimostrato plasticamente come non si gestisce un gruppo di lavoro. È prevedibile che gli uomini che ha definitivamente perso nel gelo norvegese siano ormai fuori dal gruppo, tecnicamente e mentalmente. E per ricostruire intorno ai suoi uomini avrà bisogno di tempo e di investimenti. Due fattori che non è detto che avrà a disposizione, almeno nelle proporzioni auspicate.

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