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Renzi, le lobby e Wall Street, la legge che non c’è

Nessuno può imperdire a Matteo Renzi di fare insieme il leader di Italia Viva, il senatore e il lobbista, facendosi pagare da Stati e società estere. Servirebbe una legge, che non c’è. Basterebbe però anche una qualità sempre più rara, l’autodisciplina. Sarebbe necessaria, insieme al buon senso, per rinunciare a un comportamento che se non è incompatibile sul piano formale è sicuramente inopportuno sul piano sostanziale.

L’obiezione che si fa, in questi casi, è sempre la stessa. Non si può impedire ai parlamentari di svolgere attività economiche, perché la vita al servizio delle istituzioni è spesso una parentesi all’interno di una vita professionale più ampia. Il caso di Renzi va però oltre. E il tema diventa un altro: fino a che punto gli affari privati influenzano l’attività politica e il ruolo pubblico?

La notizia pubblicata da Repubblica sulla trasferta newyorkese per il lancio a Wall Street della società italo-russa di car sharing Delimobil, nel cui cda siede il leader di Italia Viva, si aggiunge ai precedenti che riguardano gli impegni dell’ex premier in Arabia Saudita. Prima le parole sul nuovo Rinascimento associato al regime del principe ereditario Mohammed bin Salman, poi l’assenza al voto sul ddl Zan per essere presente a Riyad, a un evento organizzato dal fondo saudita Future Investment Institute, del cui board fa parte. Le polemiche, e le strumentalizzazioni di parte, diventano inevitabilmente argomento di scontro politico.

La sostanza resta piuttosto evidente. Prendere soldi da Stati e società straniere mentre si è parlamentari, e nel caso di Renzi anche un leader che ha un peso politico rilevante, pone un problema che ha un nome antico e una storia accidentata: il conflitto di interessi. Ecco perché serve una legge che ancora non c’è.

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