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Caporalato, piaga antica e sfregio alle istituzioni

Una piaga antica, che ora arriva a scuotere le istituzioni. Il caporalato in Italia non fa notizia, nel senso che i dati, da tempo, indicano una presenza diffusa e radicata del fenomeno sul territorio. Soprattutto in agricoltura. E le operazioni che si susseguono dimostrano quanto sia necessaria un’azione di contrasto capillare. L’ultimo blitz, la notte scorsa a Manfredonia e in altri comuni della provincia di Foggia, aggiunge anche il coinvolgimento, indiretto ma rilevante, di un uomo delle istituzioni. Le forze dell’ordine hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di 16 persone (due in carcere, tre ai domiciliari e undici tra obblighi di dimora e obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria). E tra loro c’è anche la moglie del prefetto Michele Di Bari, capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, già prefetto di Reggio Calabria.

Le dimissioni di Di Bari, arrivate appena la notizia è stata diffusa, amplificano la risonanza di un fatto di cronaca, legato al caporalato, che descrive uno sfruttamento sistematico di manovalanza sottopagata e diritti negati. Le parole scritte dal Gip del tribunale di Foggia sull’operato della moglie, Rosalba Livrerio Bisceglia, sono del resto piuttosto chiare: impiegava nella sua azienda “manodopera costituita da decine di lavoratori di varie etnie”, “sottoponendo i predetti lavoratori alle condizioni di sfruttamento”. Questo, anche a fronte “delle condizioni di lavoro (retributive, di igiene, di sicurezza, di salubrità del luogo di lavoro) e approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie”. Ricostruito anche il legame con uno dei due caporali finiti in carcere, Bakary Saidy: portava nei campi i braccianti “in seguito alla richiesta di manodopera avanzata da Livrerio Bisceglia, che comunicava telefonicamente il numero di lavoratori necessari sui campi”.

Gli sviluppi del processo chiariranno tutte le responsabilità individuali. Quello che emerge è però un sistema malato e il fatto che in una vicenda di caporalato sia coinvolta la moglie di un prefetto, con un importante ruolo istituzionale al Viminale, aggiunge un elemento che non può essere sottovalutato. Se una persona esposta si muove con tale disinvoltura nel mondo dell’illegalità, senza preoccuparsi delle possibili conseguenze per se stessa e per la reputazione di suo marito, evidentemente si sente sufficientemente tutelata da un ambiente in cui quell’illegalità è prassi o, comunque, licenza tollerabile.

Questa però non è in nessun modo un’attenuante. Al contrario, rende un comportamento criminale ancora più grave. Posto che le tutele e i diritti devono essere per tutti, e che anche la posizione di ogni imputato di fronte a un reato, caporalato incluso, non deve cambiare in base al proprio rango sociale, un caporale che tratta con un’imprenditrice come la moglie del prefetto Di Bari rafforza la sua posizione, e lo sfruttamento nell’azienda riconducibile a un uomo delle istituzioni è, se possibile, uno sfregio ancora più profondo alla legalità e all’economia sana.

 

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