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Inflazione, Lambertini (Unibo): Guardiamo agli investimenti green

La bestia nera dell’economia adesso si chiama inflazione. I numeri diffusi dall’Istituto nazionale di statistica parlano chiaro: mai così male in Italia da 26 anni. Nei Paesi dell’area euro non va meglio. Eurostat, l’Ufficio di statistica europeo, conferma stime anche al 5,1%. Un trend che stavolta la Bce considera “preoccupante”, anche se nel breve periodo non è previsto un cambio di rotta delle politiche sui tassi di interesse. A monte del balzo inflazionistico c’è sempre il caro energia, che a sua volta dipende da una domanda in crescita a cui non corrisponde un’adeguata offerta. Per non parlare degli assetti geopolitici e di quanto stanno condizionando forniture e rincari. Ne parliamo con il professor Luca Lambertini, (DPhil, Oxon), ordinario al Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Bologna, dove attualmente dirige l’Alma Climate Research Institute.

Professore, l’inflazione cresce anche in Italia. Gli ultimi dati Istat la danno al 4,8% su basa annua. L’impatto è forte.
Sì, e inciderà in modo non trascurabile sulla spesa a carico della maggior parte delle famiglie italiane non solo nel corso del 2022, ma verosimilmente più a lungo. Quanto a lungo, ed esattamente in quale misura, dipenderà dall’intersezione tra gli sviluppi a breve e medio termine dello scenario internazionale, in particolare ai confini orientali dell’Unione Europea, dalla messa a terra del Pnrr, dall’orientamento complessivo delle politiche adottate dalle Banche centrali e dagli sviluppi della pandemia”.

Il caro energia spinge il balzo inflazionistico. La domanda aumenta e l’offerta diminuisce.
Questo comportamento del mercato energetico, in particolare del segmento relativo al gas, è una conseguenza di un aspetto che ho appena menzionato, cioè la situazione attuale in Ucraina. Se valessero solo gli incentivi economici, dovremmo aspettarci un film completamente diverso. Ma il ruolo che uno strumento come la fornitura di gas può giocare nell’arena delle relazioni internazionali in situazioni come questa può prevalere facilmente sui meccanismi di mercato governati solo sull’interazione tra prezzi e quantità.

Perché a incidere sono maggiormente i beni energetici regolamentati?
Perché purtroppo sono quelli di cui l’Unione europea è meno dotata. Abbiamo davanti a noi uno scenario che ha un tratto apparentemente paradossale, ma che in realtà si offre a una interpretazione molto nitida. Dal punto di vista manifatturiero l’Ue è un grande esportatore, ma può facilmente essere messa in difficoltà anche su un terreno in cui è tradizionalmente forte usando strumentalmente la leva energetica. Magari non direttamente a questo scopo, perché la sua vera funzione è di natura geopolitica.

C’è chi ritiene che un’accelerazione della transizione verde possa rendere alcune materie prime ancora più difficili da reperire e dunque strapagate. Lei è d’accordo?
Questa si potrebbe definire ‘la domanda di tutte le domande’. In linea di principio, e anche ai fini pratici, il traguardo del 2050 scritto nell’Accordo di Parigi, la cui implementazione ha avuto il via ufficiale dalla COP24 a Katowice, prevede che l’intero pianeta affronti e risolva una volta per tutte il problema della sostenibilità del sistema economico globale nei prossimi 28 anni. E sappiamo che questo implicherà, lungo questo orizzonte, una curva dei prezzi delle fonti fossili più ripida di quanto non sarebbe stata in assenza dell’accordo. Il motivo sta nel fatto che chi detiene i diritti di sfruttamento dei giacimenti sa che, se terremo fede all’accordo, alla mezzanotte del 31 dicembre 2050 il vecchio tavolo da gioco chiuderà. Queste considerazioni implicano diverse conseguenze non facili da gestire. Una, forse, l’abbiamo già sperimentata quando poco dopo la firma dell’accordo il prezzo del greggio è bruscamente diminuito. Certo, le spiegazioni che accompagnavano quella scelta erano altre. Fatto sta che è esattamente quello che sappiamo di doverci attendere se una risorsa fossile fronteggia una data terminale in corrispondenza della quale verrà sostituita da un’alternativa. A questa è connessa la seconda conseguenza, su cui si è molto discusso in sede di ricerca scientifica, e cioè il ‘paradosso verde’ formulato da Hans Werner Sinn: in sostanza, se la vita utile residua dei combustibili fossili si accorcia, l’incentivo a non lasciare profitti ‘inerti’ nei giacimenti o nelle miniere ne accelera l’estrazione e quindi provoca le stesse emissioni di gas serra nell’atmosfera ma in tempi più brevi, con un conseguente danno ambientale più elevato.

Si sta parlando molto del prezzo del gas rispetto a quello di altre fonti fossili. Per esempio anche il prezzo del petrolio aumenta ma se ne discute meno. Il gas incide di più sulla geopolitica in questo momento?
Per quanto riguarda i Paesi dell’Unione europea sicuramente sì, soprattutto in relazione allo scenario internazionale attuale, perché l’Ue importa oltre il 40% del proprio fabbisogno dalla Federazione russa.

Quanto è dannoso l’aumento del costo dei beni energetici per le attività produttive?
Mi limito a sottolineare che l’aumento del prezzo del gas si ripercuote sui consumi perché le famiglie devono far fronte a bollette notevolmente più costose. Questo è vero anche nel caso di altre fonti, e in generale l’effetto negativo sulla domanda interna si somma all’effetto sul lato dell’offerta, sul quale l’aumento dei costi di produzione accoppiato all’inflazione sul versante dei prezzi finisce col danneggiare la competitività dell’export su tutto il fronte.

La nuova tassonomia energetica decisa dalla Commissione europea introduce gas e nucleare tra le fonti di transizione con l’obiettivo zero emissioni di CO2 nel 2050. Una decisione che si porta dietro una scia di polemiche e che dovrà passare al vaglio del Parlamento di Strasburgo e del Consiglio europeo. Bruxelles considera il compromesso raggiunto “pragmatico, basato sulla scienza e responsabile”. Gli ambientalisti protestano e la Commissione si è spaccata.
Capisco le perplessità generate dalla scelta in merito a gas e nucleare. Dobbiamo però considerare che si tratta verosimilmente di una soluzione tampone che potrebbe essere rivista, e verosimilmente lo sarebbe, nel momento in cui gli altri ingranaggi più canonicamente connaturati all’Accordo di Parigi entrassero veramente in ritmo. Nell’orizzonte trentennale dell’Accordo è auspicabile che accada. Certo, per farla breve, chiudere il rubinetto di un oleodotto è più facile che dismettere i reattori. Però è anche vero che il gas non l’abbiamo, mentre la tecnologia nucleare sì. È un tradeoff molto difficile da risolvere.

 

Parliamo di investimenti ‘green’. Quanto incideranno sulla ripresa?
Potenzialmente moltissimo. A partire dal Pnrr – e in una visione apertamente europea, Next generation Eu – per finire con ciò che veramente sarebbe auspicabile, ovvero un’Unione europea alla guida di un paradigma della sostenibilità tramite un tessuto universitario, industriale, sociale e istituzionale che produca un patrimonio condiviso di conoscenze e tecnologie verdi. È importante trasmettere quest’idea di Europa all’opinione pubblica, che deve essere coinvolta in questo programma ed essere cosciente di farne parte. Realizzare gli obiettivi connessi al paradigma della sostenibilità significa anche alimentare la crescita in direzioni diverse da quelle che ci sono familiari dalla metà del secolo scorso. Aggiungo che questo va fatto avendo in mente un’idea di equità tanto intragenerazionale quanto intergenerazionale. E l’Ue, non essendo in possesso di una porzione significativa delle fonti fossili residue, ha fortissimi incentivi in questo senso. Incentivi economici e incentivi ‘naturali’, per così dire, a fare la cosa giusta perché è giusta. Inoltre, esiste uno scenario di cui siamo debitori nei confronti di Michael Porter, e che quindi è noto come ‘Ipotesi di Porter’, in cui un disegno accurato della regolamentazione ambientale induce le imprese a investire in tecnologie verdi in modo da liberarsi dei paletti regolativi e scoprire che la loro performance migliora. Nella sua forma più forte l’ipotesi prevede che questo risultato sia accompagnato da un welfare più alto, generando quella che è ormai tradizionalmente nota come win-win solution. La grande mole di ricerca teorica generata dall’iniziale formulazione dell’ipotesi ne ha dato sistematiche conferme, ma ancora manca una consistente validazione empirica. Tener fede all’accordo potrebbe portare alla conferma fattuale dell’ipotesi di Porter, e la soddisfazione del ricercatore sarebbe sicuramente oscurato dall’impatto che un mutamento di rotta di queste proporzioni avrebbe sul mercato globale.

L’inflazione è un pericolo per la crescita. Possono essere state anche le politiche espansive delle Banche centrali a determinarla?
Il problema è che l’effetto dell’inflazione non è monotono. Mi spiego: una politica monetaria espansiva come il Quantitative easing è una potente medicina per generare un livello di inflazione che possa avere effetti salutari. Ma la stabilizzazione dei prezzi e del loro comportamento è connaturata al mandato di un banchiere centrale. Quindi la mia risposta sintetica è no.

La Bce, ha detto ieri Christine Lagarde, valuterà “attentamente, sulla base dei dati disponibili” se ci saranno le condizioni per alzare i tassi nel 2022. Per ora non si toccano e promette “gradualità in qualsiasi decisione” verrà presa. Francoforte mostra fiducia: “Probabile che l’inflazione rimanga elevata più a lungo del previsto ma anche che diminuisca nel corso di quest’anno”. Ottimismo rischioso?
Condivido l’atteggiamento della Bce, anche se le Borse reagiscono negativamente al lieve segnale nella direzione di un rialzo dei tassi. Credo che la diversità di atteggiamento mostrata dalla Bce e dalla Fed sia riconducibile al fatto che il fenomeno inflattivo è molto più generale negli Stati Uniti rispetto a quanto sta accadendo nell’Unione europea. La presenza di considerazioni ben soppesate sulla persistenza di tassi d’inflazione elevati fa parte integrante del compito di un banchiere centrale, che non può al momento sbilanciarsi in merito all’esatta natura transitoria o permanente del presente fenomeno inflattivo.

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