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Intesa SanPaolo e la settimana lavorativa di 4 giorni, l’analisi di Riccarda Zezza

Lavorare meno, senza tagli allo stipendio. È il sogno di tanti lavoratori che, soprattutto durante la pandemia, hanno riscoperto i valori che spesso venivano dati per scontati. Un sogno che potrebbe avverarsi per i dipendenti del gruppo Intesa SanPaolo, che ha annunciato l’intenzione di rimodulare la settimana lavorativa degli impiegati, che vedrebbero accorciarsi da 37 ore e mezza a 36 le ore di lavoro, e da 5 a 4 i giorni da trascorrere in ufficio. Questo porterebbe però tutti a lavorare un’ora e mezzo in più al giorno.

Dall’azienda fanno sapere a Fortune Italia che la trattativa con i sindacati è momentaneamente sospesa. Potrebbe forse dipendere dal fatto che Intesa SanPaolo avrebbe proposto il riassetto settimanale solo ai dipendenti degli uffici e non anche a quelli delle filiali. Il gruppo Intesa San Paolo conta circa 96mila dipendenti, dei quali circa 74mila sono impiegati in Italia, ed i sindacati, che si sono detti favorevoli al riassetto, vorrebbero però che fosse esteso a tutti i dipendenti.

Ma quanto questo riassetto è davvero in linea con le nuove esigenze di vita, emerse durante la pandemia? Ne abbiamo parlato con Riccarda Zezza, imprenditrice e ceo di Lifeed. E secondo lei, il tema non è passare da  smart working a settimana corta.

In merito all’iniziativa di Intesa San Paolo “quando ne ho sentito parlare ho pensato che fosse una bella notizia” dice la Zezza. “Tutto quello che rompe la prassi precostituita è apprezzabile. Non possiamo a priori giudicare se sia un’azione buona o cattiva, senza vedere come viene calata nella realtà, con quali caratteristiche operative, e quali vantaggi effettivi per i lavoratori. Io penso che vada premiata la spinta al cambiamento, e quando si parla di lavoro, in Italia, c’è bisogno di apprezzare ogni tipo di novità positiva“.

Non si tratta quindi di scegliere se  lavorare meno giorni a settimana, o poter contare su un’azienda che concede flessibilità e smart working. Nell’analisi della Zezza “le due cose non sono antitetiche” anzi, aggiunge “sarebbe bello pensare che possano coesistere, piuttosto che concepirle come alternative l’una all’altra”. Il concetto deve quindi essere più ampio, il lavoro flessibile deve potersi esprimere in molti modi alternativi.

Secondo Riccarda Zezza “con la pandemia e forse ancora più nel periodo successivo, abbiamo visto il lavoro trasformarsi e adattarsi a quello che stavamo vivendo. I lavoratori hanno scoperto un modo più congeniale di coniugare l’impegno professionale con la loro vita quotidiana. Anche se sembra che ora ci sia la tendenza a ripristinare una situazione lavorativa simile a quella che abbiamo vissuto fino a tre anni fa.  Dobbiamo provare a seguire invece l’onda del cambiamento, in altri paesi Europei  hanno già fatto questo passo radicale”.

Lo scorso febbraio il governo di Bruxelles ha proposto, ad esempio, uno schema basato su quattro giorni lavorativi, mentre in Portogallo il parlamento ha già approvato un emendamento che va in questa direzione.  Spagna, Islanda  hanno avviato dei test, come anche l’Uk, dove settanta grandi aziende hanno sperimentato la ‘settimana corta’, e l’80% di queste ha confermato di voler rendere permanente questa ‘innovazione’. Anche per l’Italia, sottolinea Zezza, “non dobbiamo nuovamente essere chiamati a scegliere fra lavorare o vivere, in maniera alternativa. Siamo cambiati, il mondo è cambiato, è giusto che anche il lavoro cambi“.

Brunello Cucinelli, imprenditore e filosofo, dal canto suo ha dichiarato di recente che si dovrebbe lavorare massimo ‘sette ore al giorno e dedicarci poi a noi stessi’. E’ necessario pensare ad un assetto lavorativo completamente nuovo, “che consideri l’esistenza delle altre necessità, oltre a quella lavorativa” aggiunge l’imprenditrice milanese. “Non parlo di numero di giorni di lavoro a settimana, ma di una dimensione personale che sia sinergica rispetto al mondo del lavoro“.

Non bisognerebbe quindi considerare il lavoro in termini di ore ma di risultati raggiunti  “C’è bisogno di un nuovo approccio culturale – dice Zezza – deve cambiare il modo in cui il mondo del lavoro guarda e si relaziona con gli eventi della vita. Il vero tema è quello di capire come facciamo incontrare i due mondi”.

Ma a ben guardare, l’innovazione proposta dal gruppo Intesa San Paolo è già prevista dal  contratto nazionale bancario, all’articolo 104 comma 4, che parla proprio di introdurre la settimana corta,  con quattro giorni lavorativi e giornate di 9,5 ore ciascuna.

Allora ci si chiede perché nessuna banca ne avesse promosso l’attuazione, fino ad ora. “La ragione per cui non si cambia è complessa. E’ un classico ingorgo a croce uncinata” dice Zezza citando Luciano de Crescenzo. “Per dirla in altri termini, la banca non cambia perché i clienti non sono cambiati, il cliente non cambia perché i servizi non cambiano. Sarebbe utile che le istituzioni ed il pubblico avessero una visione più a lungo termine, questo aiuterebbe. Perché chi lo innesca, il cambiamento, se ne prende  l’onere, che è quello di gestire complessità e problematiche”.

E poi resta il tema del dover lavorare un minimo di 9 ore e mezza al giorno: questo impatterebbe comunque fortemente sul quotidiano dei singoli lavoratori. “Di fatto in Italia già si lavora spesso oltre l’orario canonico, abbiamo pessime abitudini in questo senso. Ma dobbiamo slegarci dal concetto dell’orario e tornare a guardare al risultato, dobbiamo lavorare per obiettivo, non a tempo. Questa sarebbe un’altra grande rivoluzione. C’è ovviamente bisogno una unità di misura, ma è un discorso che mi auguro verrà presto superato dalla prassi. Dalla pandemia è emersa una maggiore voglia di libertà, e per questo abbiamo bisogno di lavorare sul nostro senso di responsabilità”.

L’esercizio della libertà richiede impegno, ha bisogno di una sosta di riflessione. Essere liberi non significa non avere limiti, ma poter operare congiuntamente alle strategie di cambiamento.

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