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Andrea Leone: vi racconto mio padre

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Dal 20 ottobre è nelle sale “Sergio Leone – L’Italiano che inventò l’America”, il documentario prodotto da Sky Studios e Leone Film Group diretto da Francesco Zippel sul leggendario regista della Trilogia del Dollaro e di altri capolavori della storia del cinema, uno tra tutti ‘C’era una volta in America’. Dopo la presentazione in anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia, il film documentario che presto sbarcherà su Sky è impreziosito dalle testimonianze, tra gli altri, di Steven Spielberg e Quentin Tarantino, che definiscono Leone il più grande regista della storia del cinema.

Tra i tanti volti che si prestano al racconto anche Robert De Niro, Clint Eastwood, Giuseppe Tornatore, Ennio Morricone (intervistato prima della sua scomparsa), Carlo Verdone e numerosi altri. E ovviamente i figli del regista, i produttori Raffaella e Andrea e l’artista Francesca. Incontriamo Andrea Leone, azionista di maggioranza della Leone Film Group (quotata sul mercato AIM Italia dal 2013), con un lunghissimo listino di titoli distribuiti in Italia (oltre a quelli prodotti con Lotus Production) tra i quali si aggiungeranno, prossimamente, i nuovi film di Steven Spielberg (“The Fabelmans”, a Natale al cinema) e di Martin Scorsese (“Killers of the flower moon”, previso a Cannes nella prossima primavera).

Andrea Leone, che effetto le fa partecipare e assistere al documentario su suo padre?

Ci abbiamo pensato tanto prima di fare questo documentario ed eravamo anche abbastanza indecisi se farlo o meno perché ovviamente la nostra è una voce di parte, quindi avevamo paura in qualche maniera di fare qualcosa che non ne rappresentasse per il pubblico il valore, il merito. Invece le testimonianze che abbiamo avuto dai più grandi registi viventi che sono presenti nelle interviste e che parlano in maniera fantastica di papà ci hanno dato un’emozione e una consapevolezza maggiore laddove ce ne fosse stato bisogno.

Quando Spielberg e Tarantino, tra gli altri, dicono che Sergio Leone è stato il più grande regista della storia del cinema cosa si prova?

Una grandissima emozione perché viene detto da coloro che io, ma penso tutti, collochiamo nell’Olimpo dei registi della cinematografia mondiale di tutti i tempi. Pensare che gente così importante si sia ispirata o si ispiri ancora al cinema di papà mi gratifica moltissimo. Parliamo di un cineasta che ha cominciato più di cinquant’anni fa ma che evidentemente rimane un punto di riferimento imprescindibile, un classico intramontabile.

Il titolo in qualche modo fa capire che l’artigianalità italiana in realtà ha saputo raccontare, non tanto l’America, quanto il “genere”, la sostanza del grande cinema americano, quasi meglio degli americani stessi. Quali riflessioni, alla luce anche delle considerazioni dei più grandi registi contemporanei presenti nel documentario, si possono fare sul cinema di Sergio Leone?

La prima cosa è che sicuramente si tratta di film molto moderni, per l’epoca erano qualcosa di rivoluzionario. Oggi vedendo i film di papà in Tv spesso non mi rendo conto di quanto tempo sia passato. Oppure, paragonandoli ad altri film di quei tempi, mi accorgo che, oggettivamente, a livello di ritmo, di immagine, di musica i suoi film hanno cambiato qualcosa. Quando Tarantino dice che c’è il vecchio cinema e il nuovo cinema di Hollywood e Leone è in mezzo, spiega come Sergio Leone sia stato quello che ha dato il via al cinema moderno, come uno spartiacque. E il fatto che tutti i suoi film continuino ad andare, o almeno fino all’avvento degli SVOD (Subscription Video on Demand, ndr), andavano in prime time in tutto il mondo, è la dimostrazione che sono davvero senza tempo.

Da bambino, insieme alle sue sorelle, ha vissuto delle esperienze sui set accanto a suo padre?

Io sinceramente ne ho vissute poche perché sono più piccolo di Raffaella e Francesca e papà ha avuto un periodo di tempo, tra il 1970 con “Giù la testa” e il 1982 quando ha cominciato a girare “C’era una volta in America”, in cui non ha fatto regia ed io quindi non l’ho visto direttamente all’opera mentre dirigeva né sono stato utilizzato come comparsa a differenza delle mie sorelle. Ho vissuto ovviamente tutto il mondo del cinema che frequentava casa mia e i grandi amici di mio papà con i quali collaborava.

Uno tra tutti, il Maestro Ennio Morricone.

Con Ennio e i figli abbiamo passato tutta l’infanzia e un pezzo di adolescenza insieme perché abitavamo vicini, andavamo perfino allo stadio insieme a vedere la Roma. C’era una frequentazione continua delle famiglie e mi ricordo questa collaborazione strettissima che c’era tra papà ed Ennio. Lui veniva a casa nostra e si metteva subito al pianoforte oppure noi andavamo a casa sua e lui cominciava a suonare.

Si isolavano per lavorare?

Devo dire che mia madre (Carla Ranalli, è stata la prima ballerina del Teatro dell’Opera di Roma, ndr) è stata molto presente in questo ambito, era un’artista, aveva un grande orecchio e gusto e papà si fidava molto di lei e del suo giudizio, si confrontavano spesso. Quando Ennio e papà si isolavano per comporre mamma spesso era lì, presente, che cercava di dar loro una mano.

Lo scorso anno il documentario “Ennio” è stato il film italiano più visto. Come pensa si possa inserire nell’industria questo formato-linguaggio dei documentari in questo momento?

Credo che rispondano ad un’esigenza del pubblico di approfondire la conoscenza di un argomento o di un personaggio, soprattutto quando sono realizzati molto bene come “Ennio” di Peppuccio Tornatore. Penso che possano avere anche un destino di sala cinematografica rispetto a quello che magari generalmente possiamo immaginare come la loro collocazione più semplice che è quella televisiva, on demand o streaming. Non a caso i grandi film recenti, e meno recenti, sono basati su accadimenti reali. Quindi forse, in un momento come questo attraversato dalla pandemia e con la guerra in corso in Ucraina, la gente ha bisogno di riappassionarsi a storie vere che hanno rappresentato qualcosa per chi le ha vissute o che possano emozionare chi le vede.

Come saranno i prossimi mesi per la sala cinematografica?

Decisivi. Nel senso che adesso, finalmente, si sta tornando alla normalità, non c’è più l’obbligo della mascherina e quindi la gente si sta riabituando ad andare al cinema, specialmente la fascia di età tra i 40 e i 60 anni che è stata un pubblico molto importante per il cinema in Italia, lo zoccolo duro degli spettatori che probabilmente ha avuto paura più dei giovani e che ha avuto più difficoltà ad andare al cinema. Credo che da qui a Natale, approfittando anche del fatto che c’è una sosta del campionato di calcio e l’Italia non parteciperà ai Mondiali, potremo avere lo specchio di quello che si è perso dal 2019 a oggi ed evidentemente forse lavorare e riflettere su quel delta definitivo.

Pensa che dal 2023 in poi si potrà, sulle indicazioni di mesi, parlare di ripresa? Come vede il futuro della sala a medio e lungo termine?

Credo che il problema del Covid, al di là di quello che è stato e delle paure che innescato nella gente, è che ha cambiato la percezione di come usufruire del prodotto televisivo e come usufruire del cinema. Penso che questa sia un po’ la prova del nove per capire quanto la gente si sia comunque disaffezionata ad andare in sala o meno. C’è anche un aspetto positivo, paradossalmente.

Nel senso che si tornerà ad avere meno film nelle sale ma opere più importanti che avranno una tenitura maggiore e daranno allo spettatore la possibilità di andare a vedere film che meritano di essere visti in sala. Perché, diciamoci la verità, ci sono stati tanti titoli nel corso del tempo che forse erano più adatti alla televisione. Credo ci sarà una spartizione reale tra un prodotto televisivo, che magari vedendolo in televisione hai anche una percezione migliore di quella che puoi avere avuto andando al cinema, e viceversa. La sala, almeno per i prossimi mesi, deve essere il luogo dei grandi eventi, dei film importanti che devono assolutamente e necessariamente essere visti sul grande schermo.

E in questo le piattaforme possono forse tenere vivo il rapporto con lo spettatore anche magari nel far appassionare nuove generazioni al cinema.

Assolutamente! Credo fortemente che le piattaforme siano state una parte vitale dell’industria in questi ultimi anni. Sala e piattaforma devono convivere perché l’innovazione è fondamentale in tutti i settori, così anche noi ci dobbiamo adeguare a quello che è un mondo ormai diverso. Ci sono tanti film usciti in sala negli scorsi anni che non hanno avuto una fortuna cinematografica e che, invece, avrebbero avuto una grandissima fortuna on demand e in streaming, come del resto è capitato per molti titoli. Credo che ci possa essere spazio per tutti i segmenti.

Il tempo aiuterà a definire e a collocare i prodotti?

Sì, certamente. E il pubblico secondo me si renderà conto che quando c’è un film come “Top Gun” varrà la pena andarlo a vedere al cinema e magari una commedia più semplice potrà essere vista invece a casa. Fermo restando che la commedia “da salotto” dovrà tenere standard qualitativi di scrittura e di realizzazione sempre alti perché nulla gli vieta di poter tornare ad essere un prodotto valido e originale per la sala.

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