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Il 2023 delle imprese e la ‘perma-crisi’: non proprio ottimismo ma…

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Conosciamo i mali della nostra economia. Di recente, l’Economist ce li ha impietosamente ricordati. Quando l’Europa cresce noi stiamo fermi, quando ristagna noi andiamo indietro, quando cade noi cadiamo di più. La produttività non cresce da venti anni. Di conseguenza, il reddito pro-capite ristagna. La popolazione invecchia, e i tassi di partecipazione al mercato del lavoro di giovani e donne rappresentano i minimi tra i Paesi sviluppati. Poche grandi imprese, pochi investimenti in ricerca e sviluppo, un Mezzogiorno che si distanzia sempre più dal resto d’Italia e d’Europa. Un sistema scolastico arretrato e immobile. Un gigantesco debito pubblico, il cui peso rischia di farsi insopportabile con il rialzo dei tassi d’interesse.

Tutto questo lo conosciamo bene, ne abbiamo scritto, parlato, discusso. Ma… Ma c’è qualcosa che è accaduto più di recente, che non avevamo previsto e che tardiamo a capire. E, come sempre, le cose più interessanti si nascondono in quel che non capiamo.
Pur con tutte le debolezze che abbiamo ricordato, qualcosa di positivo è successo.

In quella che è stata chiamata la perma-crisi (parola dell’anno per il dizionario Collins, ormai entrata anche nel dizionario Treccani), la crisi permanente, fatta di shock finanziari e del debito pubblico prima, di pandemia da Covid-19 poi, infine da guerra in Ucraina e balzo nel costo delle energie fossili, improvvisamente siamo stati più volte costretti dai fatti a rivedere al rialzo le previsioni circa l’andamento dell’economia italiana.

I “rimbalzi” dal profondo delle crisi sono stati più robusti di quanto ipotizzato; il rallentamento in corso si annuncia qui da noi meno grave che altrove.

Due indicatori ci aiutano a sintetizzare quanto di buono e di non previsto è successo.

Il saldo tra i debiti e i crediti intrattenuti dall’Italia con il resto del mondo a fine 2014 era negativo per circa il 25% del PIL; è progressivamente migliorato, fino a diventare positivo nel corso del 2020, e raggiungere a fine 2021 un valore positivo pari al 10% del PIL.

Grazie alla buona dinamica delle esportazioni, non siamo più debitori netti verso il resto del Mondo, siamo diventati creditori (nonostante il nostro gigantesco debito pubblico).

Gli occupati nel 2013 erano inferiori a 22 milioni, nel 2022 hanno superato i 23 milioni, il massimo dacché disponiamo di serie storiche confrontabili, nonostante l’invecchiamento della popolazione di cui si è detto.

C’è dunque qualcosa che non avevamo previsto, e che facciamo fatica a comprendere.

Non sappiamo bene quali siano quelle imprese che hanno guadagnato quote sui mercati internazionali, che hanno accresciuto l’occupazione, che riescono a competere e a crescere nonostante le inefficienze del “sistema Italia”, l’iper-regolamentazione che le rallenta, l’esosità del fisco.

Non sapendo quali siano, la politica se ne è occupata poco. E forse questa è stata la loro fortuna.

Mentre il dibattito pubblico era concentrato su come salvare l’Alitalia, sulla ‘rete unica’ delle telecomunicazioni, su come rendere di nuovo pubbliche le autostrade, quelle imprese hanno dovuto confrontarsi con la ‘perma-crisi’. Tante non hanno retto. Ma quelle sopravvissute sono state costrette a camminare sulle proprie gambe, che con l’esercizio si sono fatte più robuste e hanno loro consentito di correre.

Qui sta il segnale di speranza per la nostra economia consegna all’anno nuovo. Ecco, volendo fare un augurio a queste imprese che ci hanno salvato dal disastro, vien da sperare che la politica continui a non occuparsene. Perché sappiamo come sarebbe in grado di frapporre sul loro percorso tanti ostacoli, e tanto impervi, da stroncare anche i garretti più robusti.

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