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Amazon, l’etichetta ‘Frequently Returned’ può essere una svolta sostenibile

C’è la scena di una serie televisiva (‘Shameless’), la cui clip sta girando da un paio di settimane su TikTok, in cui una ragazza si presenta in un negozio dopo aver comprato un paio di scarpe. Dall’acquisto sono passati trenta giorni. “Che fortuna, giusto in tempo per il reso!”, ironizza il commesso alla cassa. La ragazza giura di non averle indossate. E a valutare dalla scatola e persino dalla soletta, nessuno riterrebbe il contrario. Ma il commesso insiste, effettua un’accorta (e alquanto bizzarra) analisi con la luce ultravioletta ed ecco la scoperta: le scarpe sono state messe eccome.

“Non lo farò mai più”, promette in lacrime la cliente. Secondo Amazon, per troppe persone, soprattutto da quando esiste l’e-commerce il reso funziona esattamente così. Si acquista impulsivamente – spesso attratti dai prezzi stracciati dei marchi di fast fashion – si utilizza un articolo per un po’ e poi lo si restituisce, prima che scada il termine (solitamente fissato a trenta giorni).

Per questa ragione la più grande Internet company con sede a Seattle ha deciso che d’ora in poi segnalerà i prodotti che vengono mandati indietro più frequentemente, con un’apposita etichetta. Accrescendo da un lato la consapevolezza dei compratori, mettendoli in guardia da merce potenzialmente fuorviante o di bassa qualità. Dall’altro, ponendo un freno a un fenomeno che ha enormi costi anche sul piano ambientale.

Shameless, serie televisiva statunitense prodotta dal 2011 al 2021

Al momento, pare accadrà soltanto in America, per Amazon Usa. E in ogni caso, la misura non è ancora applicabile su tutto, ma per un numero estremamente limitato di articoli: un piatto giradischi di Pro-Ject e due vestiti da donna di ‘Temofon’ e ‘Belongsci’.

L’etichetta, certo, non implicherà blocchi o limitazioni di sorta. L’obiettivo di Amazon è quello di attirare l’attenzione del potenziale acquirente che potrebbe prendere qualche precauzione in più, ad esempio leggendo le recensioni o controllando meglio i dettagli del prodotto.

Il ‘diritto di recesso’, ossia il diritto del consumatore di recedere entro quattordici giorni da un contratto a distanza senza fornire alcuna motivazione, esiste. Ma con l’avvento e poi il boom degli acquisti online la situazione è ‘peggiorata’. Forse come conseguenza di uno schermo fisico tra cliente e commerciante che annulla l’imbarazzo, talvolta ingiustificato, di doversi presentare davanti al venditore.

Secondo i dati raccolti da PresaDiretta, il programma Rai condotto da Riccardo Iacona, tra il 2010 e il 2015 i resi sono aumentati del 66%. La stessa Amazon ha dichiarato di aver dovuto gestire un momento critico che ha raggiunto il suo picco durante la pandemia.

Restituire la merce fa male al Pianeta. Non solo per il carburante consumato dai veicoli, che si ritrovano a fare un ‘doppio giro’ e sono ancora molto inquinanti: basti pensare che la maggior parte delle consegne in Italia avviene su gomma. Ma anche perché a volte la sostituzione è più economica della riparazione: in quanto a essere resi sono, ça va sans dire, soprattutto articoli di fast fashion. Che hanno un costo di produzione inferiore.

Amazon, le accuse di greenwashing e il ‘Parco Italia’

Amazon controlla il 50% dell’e-commerce di Stati Uniti, Germania e Regno Unito. Le sue divisioni inviano 158 pacchi al secondo. E il suo fondatore, Jeff Bezos, è uno degli uomini più ricchi del mondo.

Più volte il Gruppo è stato accusato di non prendere iniziative concrete di sostenibilità, ma di fare semplicemente greenwashing. Dall’impegno a raggiungere zero emissioni di CO2 entro il 2040 (con dieci anni di anticipo rispetto all’Accordo di Parigi), all’etichetta ‘Climate Pledge Friendly’ sui prodotti considerati sostenibili dall’azienda (altra iniziativa attiva soltanto in America). Anche l’etichetta ‘Frequently Returned’ ha già fatto storcere il naso a qualcuno.

Kara Hurst, vicepresidente della Sostenibilità Globale in Amazon, nella lettera di apertura del documento di sintesi sulle azioni intraprese fino al 2021, ha scritto: “Nel 2020 siamo diventati il maggior acquirente aziendale di energia rinnovabile al mondo e lo scorso anno le nostre attività sono state alimentate per l’85% con energie rinnovabili. Continuiamo a estendere l’impiego di metodi di trasporto a zero emissioni, come van elettrici, cargo bike e consegne a piedi. Nel 2021, oltre 100 milioni di pacchi sono stati consegnati ai nostri clienti in Europa utilizzando veicoli a zero emissioni”. Ma tanto per fare una considerazione, non è nota la percentuale di veicoli a emissioni zero rispetto al totale di veicoli a disposizione della Società.

Inoltre, tra gli impegni previsti per l’Italia in tema di sostenibilità, Amazon ha sostenuto ‘Parco Italia’, un programma di riforestazione urbana che si prefigge di piantare 22 milioni di alberi in 14 aree metropolitane italiane, investendo 2 mln di euro.

Fonte: Amazon

Come nel caso del Piano nazionale di ripresa e resilienza, con cui il nostro Paese ha stanziato 330 mln di euro nella “Tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano” (con 6,6 milioni di alberi entro il 2024 in 14 città metropolitane), riuscire a ottenere una fotografia chiara per capire a che punto è il programma di Parco Italia non è facile.

L’aspetto più dibattuto e contestato al colosso dell’e-commerce quando si fa riferimento alla sostenibilità, comunque, riguarda la moda. Proprio per la facilità con cui su Amazon ci si imbatte negli articoli di fast fashion.

E se nel 2019, l’American Apparel & Footwear Association (Aafa), l’associazione che rappresenta oltre mille fashion brand, ha puntato il dito contro Amazon affermando che “pullula di contraffattori”, nel 2020 la Commissione europea ha addirittura denunciato che “Amazon usa i dati dei rivenditori per favorire i suoi prodotti”. In che modo allora, un’azienda che agisce per i propri interessi, può strizzare l’occhio a quelli degli altri, di tutti, del mondo, della sostenibilità?

Adesso, la scelta di segnalare i prodotti che vengono resi più frequentemente potrebbe rappresentare una svolta sostenibile. Rimane una scelta isolata. Amazon è un marketplace, propone cioè merce di altri venditori, e può permetterselo. Risulterebbe molto più complicato per un altro esercente produrre un’etichetta digitale che reciti: “Questo prodotto viene spesso restituito”. Il fatto che sia una decisione unica eleva la piattaforma.

Il grande potere resta ai consumatori. Non essere frettolosi, non acquistare per il gusto di farlo, possono essere massime inserite nel decalogo del cliente, quello che non sempre ha ragione. Così come comprare meno online se esistono negozi vicini che vendono gli stessi prodotti, per garantire una vivace rete socio-economica anche sotto casa nostra. E nel caso in cui si ordini online comprare più prodotti in una volta sola, per minimizzare l’impatto ambientale.

 

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