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Napoli campione d’Italia, ecco perché lo scudetto inverte la narrazione gomorristica di una città felice

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Dopo 33 anni il momento è arrivato. Il Napoli è campione d’Italia per la terza volta nella sua storia. Il Napoli è dovuto arrivare fino a Udine per mettere il sigillo ad una stagione mirabolante, straordinaria, conquistando contro l’Udinese, e non senza fatica, il punto decisivo, a cinque giornate dal termine. La rete a inizio ripresa di Osimhen – e chi altri se non lui? – ha annullato quella nel primo tempo di Lovric e ha messo fine alla spasmodica attesa per l’inizio delle celebrazioni dal Nord Est alla Campania, ma anche in tutta l’Italia dove c’è un cuore azzurro. Il fischio finale ha aperto il sipario su una notte indimenticabile, che sarà comunque il prologo di un programma di festeggiamenti che culminerà il 4 giugno, con l’ultima giornata di campionato. 

Victor Osimhen. Il campione che ha messo a segno il gol del pareggio alla Dacia Arena stadium di Udine (ANSA/ETTORE GRIFFONI)

Ma che cosa significa la vittoria dello scudetto per Napoli? In che modo questa vittoria potrà incidere sull’umore e sulla felicità dei passionali napoletani? Lo abbiamo chiesto a Marino Niola, antropologo e scrittore, docente di Antropologia dei simboli all’università Suor Orsola Benincasa. 

Napoli è una città che vive il calcio in maniera viscerale, con grande passione. In che modo questo successo sportivo può incidere sulla felicità degli abitanti? 

Napoli vive questa vittoria con una gioia che va molto al di là del semplice successo sportivo, perché a Napoli il calcio va oltre il terreno di gioco. C’è un rispecchiamento totale fra la squadra e la città e quindi la vittoria del campionato si carica di un valore identitario. 

Con quali conseguenze?

L’effetto è duplice. Il primo è economico, sul turismo, ci sono dei flussi importanti: la gente non vuole perdersi il modo particolare in cui i napoletani fanno festa. La città esercita sullo straniero un richiamo antico che anche oggi continua ad avere appeal. Il secondo è l’effetto sul morale della città: lo scudetto tiene alto il morale dei napoletani e al contempo fa crescere il soft power di Napoli, la sua reputazione. Sappiamo quanto hanno inciso i successi del Barcellona sul boom turistico della città fra gli anni ’80 e ’90. C’è un circolo virtuoso messo in moto dal calcio. 

Che valore ha il calcio nell’immaginario collettivo dei napoletani? 

Un valore immenso: la squadra rappresenta la città e quando il Napoli vince è come se si rafforzasse l’idea che la città ce la può fare a vincere anche fuori dal campo di calcio. Fu così all’epoca di Maradona, che arrivò in una Napoli in ginocchio, segnata dal terremoto. E lui fece voltare pagina. Ora accade una cosa analoga: i successi del calcio e questo boom turistico che vanno in sinergia, funzionano più di una legge speciale su Napoli. 

Perché la vittoria del titolo è così sentita? Serve a invertire la narrazione che vuole la città sempre perdente?

La vittoria inverte la narrazione della città sempre perdente, della città votata al male. Inverte la narrazione gomorristica di Napoli e riattiva le energie, funziona da anticorpo. Diventa un ricostituente per la città. 

Crede che Napoli sia una città felice, al netto di tutti i problemi e le mancanze?

Io credo di sì. Lo penso soprattutto quando vado fuori, nelle città dove i problemi che abbiamo qui sono già una questione risolta. Guardo la gente e vedo che non ride nessuno, ci sarà una ragione? In molte città, nonostante il Pil, non c’è niente da ridere. Qui la gente è felice perché vive una vita vera. La vita è fatta anche di problemi. Se dovessi scegliere un’altra città in cui vivere, non sceglierei mai una città come Brescia o Milano, mi annoierei moltissimo dopo un mese. Sceglierei una città come Palermo, Rio, Siviglia o anche Roma, già un po’ troppo occidentale per i miei gusti, ma va bene lo stesso. 

Eppure Napoli risulta sempre agli ultimi posti nelle classifiche sulla qualità della vita.

Il problema non è la classifica, ma chi le fa e quali parametri usa. Un discorso analogo si può fare per le classifiche degli atenei. Al primo posto ci sono sempre degli atenei in cui, quando poi li visito per delle conferenze, non trovo niente di esaltante. Però so che se devo andare in bagno, funziona tutto alla perfezione. A Napoli può darsi che il bagno sia occupato perché ce ne sono pochi, ma di solito all’università non si va per fare i bisogni, ma per incontrare persone che ti cambiano la vita. E questo vale per tutto, penso anche agli ospedali. I nostri sono sicuramente più indietro rispetto a quelli di altre città. Anche se la tanto decantata Lombardia, in occasione della pandemia, non ha fornito risultati esaltanti mentre il nostro tanto vituperato Cotugno se l’è cavata piuttosto bene. Allora dovremmo forse rivedere i parametri che usiamo per emettere certi giudizi e stilare certe classifiche. 

Come si misura la felicità?

La felicità non è misurabile, sfugge ai parametri quantitativi. Si vive e basta. Ogni posto ha la sua felicità. Per un napoletano, potersi concedere una giornata al mare, mangiare qualcosa di buono, poi tornarsene con calma a casa e magari progettare una cena con la persona che ama, è il massimo della felicità. Non è detto che questo renderebbe felici altri popoli dove se non fai continuamente delle cose, non sei compiutamente felice e non ti senti realizzato. Una grande virtù dei napoletani – che è quella che io definisco la loro saggezza greca – è che non hanno bisogno dei grandi obiettivi: la felicità si conquista giorno per giorno, non va mai rimandata. Ecco perché Napoli non ha mai creduto nel sol dell’avvenire: è una città senza dio, ma piena di santi e i santi servono per le necessità quotidiane. Il santo è come il negozio dove compro la frutta. Non c’è bisogno di pensare che bisogna sforzarsi in vista di chissà quale obiettivo che poi non è detto che si raggiunga. Giorno per giorno si può realizzare la felicità: qui ed ora. E questa è la vera saggezza napoletana. 

Che cosa rappresenta, per Napoli, Diego Armando Maradona?

Maradona è un santo, tant’è vero che viene sempre di più rappresentato con l’aureola e con le modalità pittoriche con cui si rappresentano i santi. Lo si ritiene sempre presente. I santi, si dice, fanno più miracoli dopo la morte che in vita. E lui sta facendo la stessa cosa. L’autogol del Lecce che alcune settimane fa ci diede tre punti importantissimi in un momento delicato dal punto di vista psicologico, qualcuno lo ha attribuito a Maradona. È onnipresente. Ecco perché la gente va in pellegrinaggio al murale come si va in pellegrinaggio ai santuari: la faccia che compare su quel muro è come Czestochowa o Medjugorje. Si disegna una speranza collettiva. 

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