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Italia, reinventare la democrazia

Il sociologo Franco Ferrarotti analizza le principali trasformazioni sociali del Paese negli ultimi decenni. E sottolinea come abbia compiuto un rapido passaggio dalla società agricola a quella industriale, ma critica la mancanza di una guida e di una governance in questo processo

Franco Ferrarotti, 97 anni, è il più noto dei sociologi italiani all’estero. I suoi libri sono tradotti in francese, inglese, spagnolo, russo e giapponese. È stato consigliere di Adriano Olivetti, diplomatico, deputato, professore.

Ha studiato, incrociando sempre l’impostazione teorica con la ricerca sul campo, problemi del mondo del lavoro e della società industriale e postindustriale, dei temi del potere e della sua gestione, dei giovani, della marginalità urbana e sociale, delle credenze religiose, delle migrazioni.

Professore, il suo percorso di vita le ha consentito di guardare le dinamiche sociali, politiche, economiche dell’Italia da osservatori privilegiati. Quali sono le principali trasformazioni sociali che l’Italia ha vissuto in questi decenni?

L’Italia dopo la fine della Seconda guerra mondiale è riuscita, in poco più di una generazione, tra il 1950 e il 1980, a compiere il passaggio dal mondo agricolo alla società industriale, un passaggio che in altri Paesi ha richiesto quasi due secoli. Ha avuto una capacità di trasformazione incredibile, una trasformazione certamente positiva, ma avvenuta purtroppo in maniera erratica, non guidata, non governata.

E da qui è emerso ciò che è tuttora un tratto caratteristico dell’Italia: il potere pubblico afferrato, goduto, desiderato, a volte in maniera spasmodica. Vissuto e usato come appannaggio personale e non invece come una funzione razionale e collettiva. In Italia, ancora oggi, purtroppo, più ancora che Machiavelli, è vivo Guicciardini, con la sua idea dell’interesse ‘particulare’.

Quale via d’uscita potrebbe esserci?

L’Italia deve ancora soffrire parecchio, perché solo attraverso la sofferenza di grandi masse umane avvengono i cambiamenti storici. I veri cambiamenti intaccano il costume e il costume di un popolo non si cambia con le leggi scritte. Oggi l’Italia è di fronte al grande problema di reinventare una democrazia che dal punto di vista procedurale va bene, ma bisogna trasformare la procedura in sostanza, dar luogo a una ripresa di contatto con la popolazione. Come recita la Costituzione la popolazione è la base del potere politico.

Secondo gli ultimi dati delle Nazioni Unite, l’Italia rappresenta dal punto di vista demografico l’1% della popolazione mondiale – siamo all’incirca fra i 7 e gli 8 miliardi e l’Italia sfiora i 70 milioni. Questo 1% possiede però il 5% delle risorse planetarie, quindi l’Italia è un Paese ricco. Ma questo 5% di risorse è nelle mani del 10% delle famiglie italiane, quindi abbiamo un grosso problema di redistribuzione delle risorse. Dobbiamo fare, nei prossimi anni, investimenti pesanti negli asili nido, nelle scuole, e anche nei contratti a tempo indeterminato per contrastare la denatalità di oggi.

Ci sono due importanti fenomeni negativi da contrastare. Primo, l’astensionismo. Oggi siamo governati da persone che sono state elette da meno del 50% degli aventi diritto al voto. Secondo, la grande denatalità. È un fatto terribile, di cui ormai si parla correntemente: quando una giovane coppia ha dei contratti a tempo determinato non può assumersi impegni vita natural durante come sono quelli verso i figli. Bisogna dare più sicurezza ai giovani.

Lei ha scritto recentemente che coniugare scienza e tecnologia e materie umanistiche è un passaggio essenziale nel cammino verso un nuovo umanesimo. Come dovrebbe essere impostato questo percorso?

Oggi il principio guida per tutte le società industrializzate è l’innovazione tecnologica. Io non ho nulla contro l’innovazione tecnologica. Riconosco il progresso tecnico, ci ha dato grandi vantaggi. Però la macchina è una grande perfezione priva di scopo.

La tecnica, assunta come principio guida, non ci guida da nessuna parte, non ci dice nulla sul nostro passato. Senza capire il passato non si può comprendere il presente e senza comprendere il presente non si può progettare l’avvenire.

Siamo di fronte al rischio di essere nello stesso tempo un mondo tecnicamente molto progredito e umanamente privo di senso, sconfitto. Con i progressi dell’elettronica abbiamo informazioni rapidissime, ma questa logica dell’audiovisivo va contro la logica della lettura umanistica, che richiedeva tempo, solitudine, silenzio, riflessione, concentrazione sulla pagina. L’audiovisivo elettronico invece deconcentra, stordisce, dà l’illusione di sapere tutto senza capire niente. E noi siamo lanciati verso un avvenire che non progettiamo, non conosciamo e che finiremo per subire in maniera forse tragica.

Come si potrebbe mitigare questo effetto potenzialmente alienante della tecnologia?

C’è una sola via, e non è miracolosa. Non basterà premere un pulsante. Bisogna riscoprire fatti fondamentali. Primo, il cervello umano è ancora una macchina lenta e, fino a prova contraria, occorrono ancora nove mesi per procreare un bambino. Occorre riscoprire la logica della lettura come concentrazione, raccoglimento, vita interiore. Oggi siamo troppo esteriorizzati, lanciati – verso dove non lo sappiamo.

Siamo come il viaggiatore di Marco Aurelio, che va, va, si muove ma dimentica lo scopo del viaggio lungo il tragitto. Abbiamo dimenticato i valori della lentezza e della riflessione. Siamo vittime di movimenti emotivi, se non irrazionali, prerazionali o arazionali, verso mete che non esistono. Si fa per fare, si guadagna per guadagnare, si fanno affari per fare affari. Affari soprattutto, a dispetto di tutto e nonostante tutto. Dimenticando l’eredità dei nostri classici, rischiamo di andare incontro a una sorta di auto annientamento dell’umanità.

Voglio ricordare tre regole classiche. Primo, nulla in eccesso, in greco μηδν ἄγαν. Ne quid nimis, in latino. Si è perso il senso della misura. Penso ai suoni in una discoteca, alla velocità insensata per le strade. Secondo, fai [bene] quello che fai. Age quod agis. Concentrati! Nessuno è più concentrato, tutti pensano che attraverso la velocità si arrivi a sapere tutto. Si deve tornare alla concentrazione, saper guardare dentro di sé e scegliere cosa fare nella vita. E sapere che la scelta non è la scelta di tutto, significa la rinuncia a tutto il resto. La concentrazione manca totalmente, soprattutto nei giovani di oggi. Terzo. Affrettati lentamente. Festina lente. Le cose vanno fatte, ma con calma. Occorre scoprire la propria vocazione, la cosa con cui identificarci, sapendo che abbiamo una sola vita e tocca a noi spenderla nella direzione giusta.

Quale consiglio vuole dare ai giovani?

La guerra, la pandemia ci hanno mostrato quanto può essere terribile perdere il contatto umano, diretto, vero. Guardandoci negli occhi e toccandoci le mani, la pelle. La vera conoscenza non può essere surrogata da nessuna socialità a distanza. Nessuna lezione online digitale. Ci vuole questo rapporto. Noi possiamo identificare noi stessi soltanto conversando, confrontandoci con gli altri.

Dobbiamo riscoprire la grande virtù della conversazione, non online ma diretta, quando si vede anche il corpo, la smorfia del corpo, il balenare degli occhi e si sente la presenza dell’altro. Dobbiamo recuperare l’alterità degli altri e capire che identità e alterità sono concetti correlativi. Scoprendo l’altro scopro me stesso. Lo dico da laico, riscopriamo l’antico straordinario messaggio di Gesù di Nazareth, la grande idea della fraternità umana, del prossimo. Ogni essere umano che per una volta passa su questo pianeta, quale che sia la forma degli occhi, il colore della pelle o la natura crespa o liscia dei capelli, è un essere umano e come tale va accettato, accolto, rispettato.

 

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