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Derrik De Kerckhove, competenze digitali e futuro del lavoro | VIDEO

Derrik De Kerckhove
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C’è un universo digitale in espansione, che rende indispensabile l’acquisizione di competenze informative sempre più diffuse. In risposta a queste esigenze di apprendimento costante, l’Unione Europea ha sancito per il 2023 l’anno delle competenze, che punta a portare “nuovo slancio all’apprendimento permanente, dando alle aziende e ai singoli la capacità di contribuire alla transizione verde e digitale attraverso il sostegno all’innovazione e alla competitività”, come si legge sul sito della commissione europea.

Per comprendere gli scenari futuri che si prospettano, Fortune Italia ha intervistato Derrik De Kerckhove, principale allievo di Marshall H. McLuhan, mass-mediologo di fama internazionale, fondatore e a lungo direttore del McLuhan Program (University of Toronto).

Pensa che le competenze digitali siano indispensabili per definire ruoli e lavori del prossimo futuro?

Le competenze digitali sono sempre più pertinenti, e la più urgente è quella di negoziare con l’intelligenza artificiale generativa, che ha preso d’assalto la popolazione mondiale – duecento milioni di persone –  e non avevamo mai registrato l’accoglienza di una tecnologia nuova in tempi così rapidi. Vuol dire anche che ci saranno competenze precedenti che non serviranno più, e altre nuove da sviluppare e insegnare. Ma è grazie a questa rapida diffusione che anche le persone meno preparate, sul piano digitale, vogliono provare la novità ChatGPT, e siamo tutti d’accordo sul fatto che questa è un’accelerazione, ed è una buona notizia per l’Europa.

Re-skilling e long life learning, sono davvero queste le parole d’ordine per eliminare il gap tecnologico in Italia e in Europa?

Il re-skilling sì, sarà utile per quelli che perdono il lavoro. Ci saranno dei licenziamenti che riguarderanno i lavori che hanno a che fare con il linguaggio, la scrittura, con la pianificazione, che saranno sostituite sempre più velocemente dalle nuove possibilità dell’intelligenza artificiale. E questo è chiaro: sempre, quando si inventa qualcosa di nuovo, si assiste a una transizione fra quelli che perdono un lavoro e quelli che ne inventano di nuovi, il re-skilling sarà essenziale, e l’Europa fa bene a pensarci.

Lei ha indicato in Pinocchio un personaggio fondamentale, che rappresenta la prima traccia della robotizzazione. Quali sono le tappe che vede invece nel futuro?

Pinocchio è un’invenzione italiana, e io faccio un paragone fra Pinocchio e i grandi miti della storia, quelli greco-romani. Pinocchio è un mito enorme, che corrisponde all’industrializzazione che ha interessato l’Italia. Quella di Pinocchio è la storia di un ragazzo che parte dalla Toscana e va a Milano o a Torino per lavorare, e quando torna a casa è come Charlie Chaplin in ‘Modern Times’, è robotizzato dal lavoro sulla catena di montaggio. Pinocchio diviene l’emergenza, il suo mito racconta il problema di un ragazzo di campagna che va in fabbrica, ma poi lui non riconosce nessuno, e nessuno riconosce lui, vive un dramma identitario difficile.

Adesso sta accadendo un processo simile: il Pinocchio del futuro è l’Avatar. In questo caso la trasformazione del lavoro, delle competenze, parte dalla digitalizzazione. Siamo tutti Avatar, è il gemello digitale di cui si parla sempre di più come della rappresentazione della nostra identità, della nostra conoscenza, della nostra esperienza nel modo digitale, un gemello digitale personale. Il digital twin si trova nel nostro telefonino: sono tutte le cose che si sanno su di te, anche quelle utili per la tua vita sono lì, tutte le esperienze, le cose che hai fatto, anche i dati della salute, tutto è già nel telefonino, l’integrazione di tutte queste informazioni dà vita al tuo Pinocchio 3.0.

Viviamo quindi un problema di robotizzazione?

Il problema della robotizzazione è a più livelli, è nelle risposte già stabilite che sono alla base del nostro rapporto con le macchine e le piattaforme. Più i robot sono autonomi, meno lo siamo noi. Per robotizzazione non intendiamo solo una macchina umanoide che cammina, perché il processo inizia dal nostro rapporto con lo schermo. È fondamentale capire che parliamo di un processo in corso, ma possiamo ancora puntare sui valori umani, sui comportamenti, sulla flessibilità biologica da contrapporre  alla meccanica o l’elettronica.

La storia di Pinocchio mostra che siamo robotizzati ma possiamo tornare bambini. Pinocchio deve superare alcuni difetti, ma ha il desiderio di tornare bambino, e per riuscirci deve lasciar perdere i cattivi consiglieri e trovarsi nella balena, che è il ventre materno, l’immagine mitica della creazione organica. Segna il bisogno di ritrovare l’organico oltre il controllo della macchina, è questo il futuro, è questa la cosa che dobbiamo fare.

L’apprendimento è di carta. Quanto e per quanto sarà ancora vero questo concetto?

Diceva McLuhan che tutte le nuove tecnologie trasformano quelle precedenti in una forma d’arte. E aveva ragione: ormai sempre di più la carta è una forma d’arte e non più il medium principale. Un’altra forma d’arte è l’individuo colto, la persona autonoma, ma tutto questo sta scomparendo, ed è grave.

La carta rappresenta la condizione attraverso cui ci facciamo permeare da una conoscenza che è esterna, dovrebbe essere considerata come lo strumento che ci rende padroni del linguaggio umano, è all’opposto dello schermo, perché permette una divisione chiara fra la soggettività e l’oggettività del mondo. La carta è essenziale per mantenere un sentimento di autonomia e di memoria personale, interna, invece di avere sempre la nostra memoria proiettata all’esterno.

A scuola si dovrebbe fare teatro per imparare il valore di memorizzare la parola umana, che è alla base della conquista del digitale, definito proprio dalla capacità di impossessarsi del linguaggio umano. Preservare il valore del linguaggio consente di dominare il digitale.

Quanto il coinvolgimento è essenziale per valorizzare le competenze dei singoli?

Il coinvolgimento in passato si chiamava interattività, veniva celebrata dal mondo dell’arte, ma ormai la parola è obsoleta ed è stata sostituita da dialogo. Per usare l’intelligenza artificiale generativa non basta fare piccola domanda cretina per ottenere una risposta generica. L’AI ti chiede di dialogare e questo processo si è evoluto, c’è già una scienza, il Prompt Engineering, l’ingegneria della domanda.

Stiamo entrando nell’era della domanda, e dobbiamo insegnare ai bambini a porre domande.

Il problema arriva quando la scuola, invece di chiedere ai ragazzi di fare domande, chiede loro di dare risposte. Le vecchie risposte degli esami, noiosissime, senza interesse, che annoiano gli studenti e anche i professori. Noi dobbiamo insegnare a costruire un dialogo. L’era della domanda è  molto ricca, un’era di grandissima intelligenza.

Marshall McLuhan, ancora, che come si sa era mio professore, diceva: l’uomo del ventunesimo secolo corre nella strada gridando ‘ho tutte le risposte’. Che però sono le domande. Lui aveva già visto quello che sta accadendo oggi, l’avvento e le logiche di Wikipedia, di Google, e lui è morto nell’’80 e non esisteva niente di questo, ma diciamo che aveva previsto la necessità di educare la gente alla domanda, al dialogo, e questo fa parte delle nuove competenze.

 

 

 

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